la Repubblica, 20 maggio 2020
Pechino ritira gli animali dalla tavola
Il cobra a 15 euro al chilo. Gli istrici a 81 euro l’uno, zibetti a 77, il muntjak, un piccolo cervo, a 316, i porcellini d’India, anche detti cavie, per 3 euro. Non è un menù, non più. Ora è l’esatto contrario: sono i prezzi che la Cina è disposta a pagare per togliere gli animali selvatici dalle tavole dei suoi cittadini. In teoria, il commercio e il consumo di carni esotiche è già vietato da febbraio, una delle prime risposte di Pechino all’epidemia di coronavirus, probabilmente incubato proprio da una di quelle specie. In pratica, il loro allevamento è un’industria chiave nelle aree più arretrate e rurali della Cina, il pane quotidiano di milioni di famiglie. Così le autorità sembrano essersi convinte che l’unico modo di sradicarlo davvero è riconoscere un risarcimento in denaro a chi chiude bottega. Venerdì scorso la provincia dello Hunan, subito a Sud del focolaio dello Hubei, è stata la prima a compilare un prezzario di rimborsi offerti agli allevatori che si liberano della fauna proibita, assegnando a 14 specie con penne, peli o squame un valore sulla base dei costi necessari a farle crescere. Pure il vicino Jiangxi promette incentivi, e altre province sembrano pronte ad accodarsi.
Il motivo per cui finora la Cina non ha cancellato per sempre il commercio di carni esotiche è soprattutto economico. Non tanto il timore di scontentare i consumatori: le loro bizzarrie alimentari risultano sempre più incomprensibili alla classe media delle grandi metropoli. Bensì quello di sottrarre a una fonte di reddito essenziale ad alcune zone rurali: stime semi ufficiali parlano di 74 miliardi di dollari di introiti e milioni di occupati. Anche durante l’epidemia di Sars del 2002 l’allevamento e la vendita di animali selvatici erano stati bloccati, salvo poi riprendere a emergenza passata. Dopo la tragedia del coronavirus, la pressione interna e internazionale su Pechino per dare un taglio definitivo a un’attività rischiosa per la salute pubblica è ancora più forte. La sessione annuale del Parlamento che si apre questo fine settimana dovrebbe emendare la legge di protezione delle specie selvatiche, rendendo il bando perenne. Ma altrettanto pressante per Xi Jinping e il Partito comunista è l’urgenza di sostenere gli abitanti delle campagne, visto che questo è l’anno in cui hanno promesso di sollevare anche l’ultimo cinese sopra la soglia della povertà.
Dopo lo stop al commercio, dalle province dell’impero si erano sollevate voci di protesta, allevatori con regolare licenza che lamentavano di aver perso decine di migliaia di euro. Il menù di compensazioni è un tentativo di placare il loro scontento, e un ulteriore indizio che questa volta la Cina fa sul serio. I fattori dovranno liberarsi degli zibetti, già portatori del virus della Sars, dei serpenti o delle pernici e convertirsi a specie domestiche, o magari alla coltivazione del tè. Alcune province sono pronte a offrire loro terra scontata o corsi di formazione. Perfino delle star del web come i fratelli Huanong, allevatori di ratti del bambù, da qualche settimana non postano più video di paffuti roditori messi in padella, ma propongono salubri preparazioni a base di pesce di fiume.
Il problema degli incentivi stanziati dallo Hubei è che si applicano solo agli allevatori regolari, con licenza. E stando agli stessi media di regime quelli clandestini sarebbero dieci volte tanti, concentrati nelle province meridionali. Per necessità o cupidigia, potrebbero provare a tirare avanti, senza controlli e in condizioni igieniche raccapriccianti, per poi piazzare la loro merce su un già florido mercato nero. Pechino dovrà trovare un modo per stanare anche loro.