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 2020  maggio 20 Mercoledì calendario

Il prefetto di Lodi: «La notte in cui inventai il lockdown»

«Ancora non sapevamo cos’era, ma qui in una notte abbiamo inventato il lockdown.
Rallentare il contagio ha permesso di evitare migliaia di morti in Italia e nel resto d’Europa, ma ha anche spaventato per durezza di misure personali e impatto economico. Per questo altrove non si sono create le condizioni per replicarlo tempestivamente. Tornassi indietro insisterei per chiudere ancora di più e in modo selettivo». Il prefetto di Lodi, Marcello Cardona, racconta a Repubblica come in Lombardia è nata la prima “zona rossa”, caso unico di segregazione sociale di massa a livello europeo dalla fine della seconda guerra mondiale. Parla a tre mesi esatti dal primo caso di coronavirus diagnosticato a Codogno e indirettamente risponde a chi, come il governatore del Veneto, Luca Zaia, oggi dichiara che «Roma ha fatto pasticci» e che il peggio è stato evitato «solo grazie all’autonomia delle Regioni». «Ho vissuto gli istanti delle scelte cruciali — dice Cardona — e posso testimoniare che la Lombardia è stata salvata dalla qualità dei suoi medici e dall’impegno del governo, più distante dalle pressioni territoriali. Senza lo Stato centrale non saremmo qui a ragionare su come riaccendere il motore di lavoro e sviluppo».
Chi ha disegnato la “zona rossa” che ha chiuso i 10 Comuni del Lodigiano?
«La notte del 20 febbraio mi hanno avvisato del primo caso di Covid-19 a Codogno. Il direttore generale dell’azienda ospedaliera, Massimo Lombardo, mi ha detto che la situazione era grave. Due ore dopo ero in videoconferenza con il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, e con quello della Difesa, Lorenzo Guerini».
Cosa vi ha spinto alla scelta più estrema?
«Medici e dirigenti sanitari sono stati subito chiari: Codogno andava considerata la Wuhan italiana e la Lombardia l’Hubei del Paese. Non c’era tempo da perdere: bisognava seguire l’esempio cinese e chiudere tutto».
Come ci siete riusciti?
«Con Lamorgese e Guerini abbiamo lavorato tutta la notte. Guerini è di Lodi, conosce bene la zona. In base ai contagi comunicati dai medici, ha tracciato i confini della zona rossa. Era presente anche il capo della protezione civile, Borrelli. Il giorno dopo ho riunito tutti i sindaci: ricordo la paura, uno solo aveva la mascherina».
Avete incontrato resistenze?
«Nessuno sapeva cosa fosse realmente una “zona rossa” da 50 mila abitanti. Il ministro Lamorgese, prima degli atti formali del premier Giuseppe Conte, ha inviato 500 uomini per i posti di blocco. Abbiamo istituito la chiusura tra il 22 e il 23 febbraio: lunedì 24 il Lodigiano era sigillato».
Perché altrove, come nella Bergamesca, non è stato fatto?
«Non me lo spiego, qui era esploso il numero dei morti e le terapie intensive scoppiavano. La mia esperienza è che Roma ha reagito subito, mettendo al primo posto la salute delle persone. Su questo ci fu una riunione a Milano, con il ministro della Salute, Speranza, e il governatore della Lombardia, Fontana».
Vuole dire che la Regione Lombardia ha perso tempo per le
pressioni economiche?
«No comment. Sulla Bergamasca non ho dati per rispondere. Nel caso di Lodi, Fontana non ha sollevato obiezioni. Cosa è successo dopo non lo so».
Perché in Europa non sono state istituite altre “zone rosse”?
«Crearle è difficile, mantenerle ancora di più. L’impatto sull’economia è violento. Nessuno voleva più venire nel Lodigiano per consegnare cibo e generi di prima necessità. Fondamentale è stata la mediazione di Carlo Bonomi e di Assindustria».
Perché, nonostante la «zona rossa», il Covid-19 ha trasformato la Lombardia in un cimitero?
«Perché ospedali e medicina territoriale non erano preparati.
Non c’erano mascherine, guanti, occhiali, camici, disinfettanti, reagenti e ossigeno. Medici di base e case di riposo non sono in rete con il sistema sanitario. E il meteorite coronavirus è caduto proprio qui».
Non l’ha sorpresa il disastro in una regione portata ad esempio d’efficienza?
«Il lockdown del Lodigiano ha permesso di organizzare la difesa sanitaria di Milano, dell’Italia e dell’Europa. Ospedali, medicina territoriale e strutture per anziani non vanno rivoluzionate solo qui. È il momento di farlo».
Pensa sia solo un problema di organizzazione sanitaria?
«No. Ripartire pone ostacoli ancora più difficili. Con il ministro Lamorgese abbiamo appena parlato di come proteggere le attività economiche dall’infiltrazione della criminalità e dai flussi di capitali sporchi. E poi c’è lo scoglio dell’ambiente».
Quale scoglio?
«Le aree più colpite dal coronavirus, non solo nel Nord Italia, sono quelle con i livelli peggiori di inquinamento. In Lombardia si sono parzialmente salvate solo le province di Como, Varese e Sondrio. Lodi è ai vertici nazionali per tumori. La questione ambientale oggi diventa un’emergenza sociale».
La colpisce l’inchiesta della procura lodigiana sui medici dell’ospedale di Codogno?
«Mi risulta sia un atto dovuto, innescato dall’esterno. Sono fiducioso sul fatto che nessun medico sarà processato: lo Stato, per medici e infermieri del Lodigiano, sta valutando il riconoscimento delle più alte onorificenze repubblicane».