il Fatto Quotidiano, 20 maggio 2020
Il suicidio del Tuffatore di Paestum in un romanzo
Uno dei capolavori della pittura di tutti i tempi è la cosiddetta Tomba del tuffatore. Si trova a Paestum, ed è frutto di un felicissimo intreccio di civiltà: v’è la Magna Grecia, vi sono gli Etruschi come popolazioni italiche dell’interno, a testimonianza della comune origine indoeuropea. Risale all’incrocio fra VI e V dei secoli a. Ch, e venne scoperta da allora ch’era rimasta sempre chiusa, dal grande archeologo Mario Napoli nel giugno del 1968. Ora la tomba è aperta, è conservata nel Museo della città, in seguito dotata del nome latino Paestum che sostituisce l’originario Poseidonia: non si può contemplare senza un brivido. È la riproduzione di un convito funebre omosessuale; i convitati giuocano anche al kottabos, una specie di tennis ove le racchette sono i calici e le palle gocce di vino accuratamente dosate, che l’avversario raccoglie nella tazza e rilancia. Ma il dipinto è di carattere, se non misterico, esoterico: sullo sfondo un giovane è sospeso nell’aria. S’è appena gettato da una sorta di trampolino in un liquido rilucente che raffigura la Morte. È, con ogni probabilità, il giovane in onore del quale il banchetto è organizzato. Che cosa raffigura la singola immagine? Un suicidio rituale? Un simbolo del passaggio dal Nulla onde proveniamo a quello ove torneremo? Certo, non si tratta di una manifestazione sportiva.
Un tema siffatto non poteva non generare immensa bibliografia. Ovviamente, di carattere scientifico. Ma il togatissimo filologo classico Luigi Spina possiede uno spirito da scugnizzo napoletano. Così a tale letteratura aggiunge un breve e delizioso romanzo, firmandolo Gigi Spina – per chi non avesse capito che da uno scugnizzo dell’alta filologia proviene. Si tratta de Il segreto del tuffatore. Vita e morte nell’antica Paestum, Napoli, Liguori, 2020, pp. 63, euro 9,90.
Di primo acchito, egli possiede tutto per non piacermi: frammenti di canzoni rock, poesia contemporanea inzeppati nella storia. Il fascino della sua scrittura mi fa ammettere ciò, data la coerenza del contesto. Solo l’orrido “recezione” (gergaccio universitario) in luogo di “fortuna” non gli perdonerò mai: la “fortuna” indica la qualità e la quantità, il modo dell’accoglienza di un’opera o di un tema o di un artista in particolare presso una civiltà successiva nel tempo.
La dottrina e la scugnizzeria di Gigi Spina riconoscono plausibilità alla sua invenzione. Gli “interni” sono la casa del Maestro dipintore, il Narratore il figlio di questo, amico del morto. Un suicidio per amore, nell’antica Magna Grecia, continua tuttavia a parermi più accettabile e di trama serrata se commesso da un uomo per un altro uomo. Per un’etera emigratasene, mah! Certo è che tra gli apocrifi infilati ce n’è uno, memorabile, che più gigispinista non poteva essere. Il gigantesco ed eroico Bute, di Velia e poi trasferitosi a Paestum, era uno degli Argonauti; disdegnoso del canto di Orfeo e fidente solo nella sua forza, nel primo incontro con le Sirene (il secondo è quello, celeberrimo, dell’Odissea), si getta a nuoto verso di loro, ne ascolta il canto e, vittorioso, gli resiste e torna indietro. Sceglie il mondo civile rispetto a quello ctonio. Idealmente a lui (o al Narratore) Gigi fa pronunciare, a chiudere il romanzo, il meraviglioso apocrifo nel quale è contenuto anche il Medio Evo europeo nel rapporto con i classici: “Da antico gigante mi sento come un nano appollaiato sulle spalle del nano che sono diventato durante questi secoli…”
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