«C’è solo questo come consolazione: un’ora qui o lì, quando le nostre vite sembrano, contro ogni possibile aspettativa, aprirsi completamente e darci tutto quello che abbiamo immaginato, anche se tutti tranne i bambini (e forse anche loro) sanno che queste ore saranno inevitabilmente seguite da altre molto più cupe e difficili. E comunque amiamo la città, il mattino; più di ogni altra cosa speriamo di averne ancora».
È uno dei colpi d’ala seminati nel tessuto del romanzo Le ore , firmato dallo statunitense Michael Cunningham: una storia di vite femminili che si specchiano nella letteratura e un grande affresco sul tempo soggettivo, riflesso nell’interiorità. Tematica in sintonia con il decorso temporale dilatato e sghembo in cui oggi ci troviamo a navigare.
Quel caso letterario, premiato col Pulitzer nel 1999 e rilanciato dal film che ne fu tratto nel 2002 (con un tris d’assi quali Meryl Streep, Julianne Moore e Nicole Kidman), intreccia i destini di tre donne incorniciate da epoche diverse. Una è Virginia Woolf, colta all’apice della depressione che la spinse al suicidio. L’altra è Laura, casalinga californiana del secondo dopoguerra delusa dall’ordinarietà repressiva che l’avvolge e aggrappata alla lettura de La signora Dalloway , opera della Woolf che finirà per salvarla dall’autodistruzione. La terza, Clarissa, è una editor newyorkese degli anni Novanta, soprannominata "Signora Dalloway" per le sue affinità caratteriali col personaggio creato da Virginia. Il confronto con un amico agonizzante la porta a un bilancio esistenziale retrospettivo che include il pensiero serrato della morte.
Dopo vent’anni dalla sua prima uscita, Le ore viene riproposto da La Nave di Teseo (nella splendida traduzione originaria di Ivan Cotroneo) con una nuova prefazione dell’autore, il quale risponde alle nostre domande da New York dove vive e lavora come docente universitario.
Michael Cunningham: "Le ore" cambiò molto la sua vita?
«Sì. È stato il più fortunato tra i sei titoli che ho scritto e mi fa piacere che venga ancora letto. Né io né il mio agente né il mio editore, all’epoca, credevamo che sarebbe stato accolto così bene. Poi il film ne ha alimentato il successo. Ero curioso di vedere come un altro scrittore lo avrebbe reinterpretato. La modalità di narrazione del cinema è molto differente da quella della letteratura».
Si può affermare che il mondo di Virginia Woolf sia la materia fondante di "Le ore"?
«Penso che Le ore possa definirsi un’improvvisazione su un tema, come se un musicista jazz eseguisse variazioni su un pezzo musicale. In questo caso il pezzo è La signora Dalloway , che io lessi al liceo e mi segnò profondamente. Molti lettori portano con sé il ricordo del loro primo libro così come del loro primo bacio. Un testo, per una ragione o l’altra, arriva a svelare la forza generata dalle parole scritte, e per me questo significato iniziatico lo ha avuto La signora Dalloway ».
Il tempo è il cuore narrativo di "Le ore"?
«L’atto del raccontare è sempre legato agli effetti del tempo sulla vita e sul mondo. Da Anna Karenina al Gattopardo , ogni romanzo parla di trasformazioni che accadono in un
flusso temporale. La signora Dalloway si svolge nell’arco di una giornata, mentre Le ore copre tre giorni: uno negli anni Venti, uno nei Cinquanta e uno nei Novanta. Tutti i plot sono dominati dal tempo, il che può far sembrare gli scrittori più esperti di quella nozione di quanto in effetti siano».
Tramite la figura di Richard, malato terminale, emerge ne "Le ore" il dramma dell’Aids. Vede nessi fra la pandemia in corso e gli anni in cui l’Aids cominciò a dilagare?
«In questi mesi circola un’aria di déjà-vu per chi ha vissuto l’inizio della crisi dell’Aids, quando non si sapeva molto sui meccanismi di trasmissione. Timori e confusione accomunano le notizie sull’Aids e sul Covid 19, e il nostro malessere, in entrambi i casi, riguarda soprattutto l’incertezza sul modo in cui si diffondono i contagi. La paura del virus rende il prossimo "radioattivo", il che ha risvolti pericolosi. Dico a me stesso: se sopravviverai, ricorda gli stati d’animo di questo periodo e come sei riuscito a mantenerti umano in una fase disumana».
Siamo noi i diretti responsabili della situazione che sta vivendo il pianeta?
«Abbiamo violentato la natura, che si vendica. Intanto, durante la pandemia, la terra mostra di guarire dagli uomini con rapidità sorprendente. Basti pensare al rischiararsi dell’acqua nella laguna veneziana e ai cieli blu di Bombay e Pechino. La natura è robusta e resiliente, mentre gli uomini sono fragili e transitori. Incarnano il brutto sogno da cui la terra si sta destando».
Condivide gli allarmi sull’eventualità che le norme per contrastare la pandemia danneggino i diritti civili?
«Tutto è contraddittorio e scivoloso.
Mi preoccupano il punto a cui potrebbero condurci le misure implementate e l’esistenza di un’app in grado d’indentificare gli individui contagiosi. Mi chiedo se l’amministrazione Usa rimanderà o cancellerà le elezioni di novembre, e se l’attuale presidente sancirà la propria carica a vita. Parallelamente mi turba il fatto che la Svezia, che non ha adottato il lockdown, abbia 20mila casi e oltre 2.400 decessi, mentre la Norvegia, che ha imposto misure restrittive, ha poco più di 7.500 casi e 207 decessi.
M’infastidisce la visione, nei telegiornali, di centinaia di cittadini del Michigan, armati di fucili, che invadono l’edificio governativo per chiedere di eliminare le restrizioni, in uno Stato con 41mila casi di Covid 19 e quasi 4mila decessi. D’altronde temo che uno psicopatico a New York cammini accanto a mio figlio di 22 anni e gli starnutisca in faccia».
La pandemia ha modificato molto la nostra percezione del tempo?
«L’ha alterata in una misura difficile da quantificare. Siamo rimasti dov’eravamo quando ci hanno imposto di fermarci. Le nostre vite continuano, ma l’orologio del mondo ha smesso di funzionare. Viviamo a seconda dell’ora che vogliamo e non sappiamo più se è martedì o mercoledì. Confesso che a me piace seguire i miei tempi sentendomi libero dall’incessante orologio del mondo. Una volta finito tutto questo, vorrei poter conservare l’abitudine di vivere mantenendo il mio tempo interiore».