la Repubblica, 19 maggio 2020
I rumori della città che riapre
La ripartenza è il rumore rassicurante del traffico che solo tre mesi fa suonava apocalittico, la ripartenza sono gli sbuffi del vapore nel bar dei Carracci, il trambusto dei cantieri, la sinfonia del martello e della piccozza e, su tutto, la strana allegria di Peppe, il manovale che sull’impalcatura, in via Giovanni De Calvi, si mette a cantare « sciòn sciòn » e quando, con la testa all’insù, gli chiedo quanti anni ha, capisce e mi risponde ridendo: «È la canzone che cantava mio padre guidando la Simca con cui ci portava al mare».
Gli chiedo se è contento. «Macché contento! Di mestiere io faccio il cuoco». Mi fai salire? «Scimunito sei?». Sento che è siciliano e con un sabbenedica mi guadagno il privilegio: « Acchiana, ma non farti vedere». Gli altri manovali sono nigeriani, senegalesi, ecuadoregni: «Io – dice Peppe – prima votavo Pd, poi ho votato grilino». E ora? «Ora non lo so, se avessi stomaco voterei Salvini. E tu?». Lasciamo perdere. « Scion, scion » : Peppe si rimette a lavorare con la calce e la cazzuola. C’è molta più vita e musica nella città che riparte e sotto sotto è pure disperata che nelle canzoni sui balconi che, alle 18 di ogni pomeriggio, truffavano la paura. È tornata invece la Roma polifonica, con i suoi botti e i suoi fruscii, il cucchiaino che fa tintinnare la tazza del cappuccino mentre i gabbiani si allontanano gracchiando, il passo danzante della vecchietta di via Flaminia, che per anni lo ha bevuto tutte le mattine uguale, e oggi fa schioccare la lingua: «Mai era stato così buono».
La ripartenza è una coppia di zingare che avanzano dentro il tram più affollato del mondo, il numero 8. Sporco più di quanto era sporco due mesi fa, da Largo Argentina ci porta al Casaletto. Una delle zingare è giovane e magra, col bastone, l’altra è piccola, vecchia e grassa, con un dente d’oro che però non brilla forse perché oggi, nella mattina della ripartenza, c’è il caldo senza sole che rende tutto opaco, l’atmosfera opprimente dello scirocco che fa sudare anche il buonumore. Entrambe le zingare hanno gli abiti lerci, pantaloni colorati sotto gonnoni scuri. Solo con loro tutti mantengono la distanza di sicurezza, perché nessuno le vuole vicine. E allora su questo tram, che passa per Trastevere, supera Porta Portese, costeggia il San Camillo…, finalmente capisco che la distanza tra gli uomini non si misura con il metro. Molto più precisamente si misura con il sentimento, di cui parlano gli occhi.
Il tram si riempie e si svuota, le due zingare occupano quattro sedie, anche quelle su cui c’è scritto che è vietato sedersi. C’è qualche mascherina, pochissimi i guanti, molte le facce dell’est, visi di poveracci, abiti da mercatino, detriti di plastica sotto i piedi: è il famoso ordine disordinato della Roma che diventa periferia, il sentore di suburra schiva e selvatica che, a differenza del centro, non rimpiange il turismo perché il turismo qui non arrivava neppure prima.
La ripartenza sono i proprietari di locali e negozi che, fosse pure per un giorno, hanno perso l’indolenza romana, il più antico e sapiente modo di vivere. Non dico la pizzeria-kebab dell’egiziano, non parlo del ciabattino bengalese con la sciarpa sulla testa e neppure del ristorante peruviano che è già affollato a mezzogiorno. È invece sorprendente la Roma del Flaminio, che lo scrittore Ercole Patti raccontava «con i fianchi larghi», e adesso è svelta, con la velocità senza fretta che trasforma anche i bar in gioiose catene di montaggio, dal bancone al tavolo e ritorno, dal tavolo alla cassa e ritorno. È pieno di vitalità il piccolo Bar dei Pittori mentre in quello dei Carracci la vecchia gentilezza sembra quasi commozione. I proprietari e le ragazze che ci lavorano riconoscono i clienti: «Il solito?» chiede la commessa a un elegante signore e gli prepara il tè al latte con il cornetto piccolo e vuoto. Alice e Maurizio ritrovano l’abitudine di tutte le mattine e al proprietario, un vecchio amico, canticchiano ridendo la canzone di Paolo Conte: «Dopo le mie vicissitudini / oggi ho ripreso con il mio bar./ Dopo un periodo di solitudine,/ ecco il Mocambo, qui tutto in fior». E intanto si siedono per consumare e i loro piedi si toccano e subito si allontanano.
Ma non li guardo più perché mi sono accorto che non c’è la solita coda davanti al supermercato, che è stato l’Altrove dell’Italia carcerata, l’Esotico della quarantena, la Patagonia di via Flaminia dove tutti siamo stati gregge ordinato e obbediente. Decido allora di provarmi gli occhiali da sole dall’ottico di piazzale Flaminio e la signora non si spaventa ad aggiustarmeli sul naso con le sue mani senza guanti, sottili come foglie d’albero. La bella dottoressa della farmacia le ha mandato un mazzo di rose, mughetti e margherite: «Ben tornata».
La ripartenza è il pedone che torna a sentirsi un ingombro attorno alle viuzze inverosimili e belle di Piazza Navona e Campo de’ Fiori, verso il ponte Sant’ Angelo, lungo la via del Governo Vecchio e soprattutto nell’area di via di Campo Marzio. Di nuovo il pedone è il bersaglio mobile dentro un reticolo di salsicce di macchine, insaccati di lamiera mista. La ripartenza è il ritorno della mala aria delle moto, dei fumi e dei gas dei Suv ma anche la folla che di nuovo bighellona in Piazza del Popolo che è il fondale di tutte le politiche, la piazza delle piazze, la piazza che ha sempre romanizzato tutto, persino il pitale di D’Annunzio e, nella storia recente, la marmaglia del dito medio, il cerchio di fuoco del giustizialismo di Di Pietro e gli squinternati del vaffa, i bauscia milanesi di Berlusconi, la Genova futurista e incompetente di Grillo e la furia fiorentina di Renzi, e poi Salvini e le sardine bolognesi… Vuota, Piazza Del Popolo era la morte di Roma. E va bene che rimpiangiamo ancora il turista con i calzoni corti a sbrendolo e le infradito che inquinavano il decoro quanto il motore a scoppio inquina i polmoni, ma ha già riaperto il caffè Canova, che odora di disinfettante, a metà tra il cloro e l’aceto. Rosati invece è ancora chiuso e il direttore del “Bolognese”, Claudio Antonelli, mite e guardingo mi mostra il distanziamento tra i tavoli, ma non ha ancora deciso. A Roma questi sono i luoghi per vedere e farsi vedere.
Nell’enoteca di via della Scrofa mi offrono un calice di bollicine: «Finalmente si può fare». Da Schostal, dove D’Annunzio comprava le calze, la signora Shelley, metà inglese e metà dello Sri Lanka, mi misura la temperatura: 36. Poi mi regala, come benvenuto, un paio di boxer colorati. Provo le scarpe da Cenci e Carlo mi dice che in mezza mattinata ne ha già vendute venti paia. Per gioco entro in un’orologeria di lusso e mi metto al polso pure un Rolex, tanto per sentirmi come un Casamonica. Persino le gioiellerie che in genere sono blindate oggi tengono le porte aperte: «Venghino, signori venghino». Al largo del Nazareno, Filippo, l’artista che taglia i capelli e spettina i pensieri, mi dice che ha prenotazioni per le prossime tre settimane. In piazza Farnese ha riaperto “Er Galletto” e Angelo, come la madre dei Gracchi, mi mostra i suoi gioielli, dodici clienti seduti a tavola davanti all’Ambasciata di Francia e alla pasta rossa: «Erano in crisi d’astinenza di amatriciana, sono i fondamentalisti del guanciale croccante». In loro onore il vento di Roma sposta le nubi dai riflessi violacei e gialli e pulisce il cielo. Sarà dolce e malinconico il primo tramonto della ripartenza.