Linkiesta, 19 maggio 2020
Filippo La Mantia riapre con grinta
Un bar, una pasticceria, un ristorante, uno spazio bollicine. Un bisogno viscerale di condivisione con le persone, che fanno quotidianamente il successo del suo locale: uno dei pochi che – prima della pandemia, ma siamo pronti a scommettere anche dopo – macina coperti e fa girare tavoli. Parliamo di Filippo La Mantia, oste e cuoco come si autodefinisce, combattivo e determinato fin dalle prime ore di riapertura.
Uno dei pochissimi che non ha aspettato un solo giorno per decidere di tornare sulle barricate, e di mettere a frutto la sua energia. Che è irrefrenabile, un flusso ininterrotto di parole che si percepisce avesse davvero la necessità di esternare: «Io voglio bene a tutti e rispetto tutti. È successa la fine del mondo, una pandemia, il mondo è in ginocchio. Bene, ok. Adesso che facciamo: ci spariamo tutti? Reagire è una parola complessa, non la voglio usare. Ma almeno cerchiamo di illuderci di fare quello che facevamo prima. Poi sarà la gente a decidere. Se non provi, non fai.»
E quindi al bando le titubanze che stanno esternando tanti suoi colleghi, più orientati alla chiusura e all’aspettativa, e su la saracinesca del suo locale in piazza Risorgimento: «Io ieri ho aperto. E c’è stato un flusso piacevolissimo. La gente è affezionata ai luoghi, i quartieri hanno i loro posti. La maggior parte sono stati tre mesi chiusi nelle case, un’altra parte andava al lavoro ma con tutto chiuso. Mancano i soldi, c’è crisi, quello lo sappiamo tutti. Forse io sono uno di quei venti che a Milano ci rimarrà sotto, perché ho una struttura talmente grande che se il lavoro dimezza non la riesco a mantenere. Ma voglio andare fino in fondo e stop. Ho aperto il bar e ho fatto il servizio del pranzo: e le persone sono venute a mangiare qui, con tutte le norme di sicurezza, distanze, mascherine, liquidi. Abbiamo fatto tre tipologie di menu: uno usa e getta, uno plastificato che si può sanificare e una app che ti permette di vedere la carta direttamente sul telefonino. Sabato aprirò anche a cena. Ho dodici prenotati, e chi se ne fotte.»
Il tono è colorito, le parole non sono filtrate: è così come lo conosciamo, immediato, istintivo, concreto. Non ha perso un grammo della sua grinta: «Sono uno così, uno da guerra. Dal 12 marzo fino a oggi non mi sono mai fermato: ho fatto un manicomio di cose. Io consegno a casa il cibo alla gente, mi metto in moto e porto personalmente i pasti, mi diverto molto. Prima venivano loro da me e adesso vado io da loro. Qual è il problema? Poi abbiamo cucinato per il Niguarda per un mese, ci siamo dati da fare. Ho pubblicato ogni giorno ricette, la gente era felice: tutto qui. Ho conosciuto probabilmente molto meglio le persone in questi mesi rispetto a quanto le conoscessi prima, perché approfondendo i rapporti, comunicando quotidianamente quello che facevamo, ascoltare le loro voglie, i loro bisogni e le mancanze che avevano, andando a casa loro, mi ha permesso di scoprire delle realtà bellissime.»
È solo una questione di forma mentale, quindi? «Allora: io non vorrei essere frainteso. Siamo tutti in una situazione allucinante, che sia chiaro. Potevo immaginarmi di vivere un terremoto o una guerra, ma un’epidemia di questo genere nell’era moderna mai avrei immaginato di vederla. E anzi, pensa senza tecnologia che cosa sarebbe stato. Però è inutile che ci barrichiamo dietro ai “non mi hanno pagato, la banca non mi ha dato i soldi, il governo è cialtrone, la cassa integrazione non è arrivata”. Siamo messi tutti così. Stando chiuso che fai? La gente ha bisogno di noi. Le attività si ricreano e si rigenerano attraverso le persone. Se non fai vedere un minimo di partecipazione la gente come fa a riprendersi i propri spazi? I luoghi appartengono alle persone, non appartengono a noi.»
E il mondo di prima? «Le guide, i riconoscimenti: tu ti ricordi tutte queste cose? “Io cucino così ho il voto alto, la guida, le riunioni, i congressi”. I ristoranti li fanno le persone: non i critici, le schede, le cose fighe. Tutti fighi siamo. Ma adesso siamo in guerra: bisogna abbracciarsi. Poi se tra due mesi non arriviamo da nessuna parte, calo le saracinesche, porto i libri in tribunale, arrivederci e grazie. Ma finché ho un luogo, questo luogo devo capire come farlo funzionare. Tutto qui. Altrimenti tra un mese che faccio? Va fatto subito».