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 2020  maggio 19 Martedì calendario

Houellebecq non ha previsto il virus

C’è una puntata dei Simpson in cui il grassone della bottega dei fumetti, in copisteria, cerca di proteggere le sue stampe dallo sguardo impiccione di Homer. Col suo solito tono sarcastico gli domanda: «Lei si chiama Ridley Scott o James Cameron?».
«No, sono Homer». «Allora la prego di smetterla di sbirciare la mia sceneggiatura, Homer. Se vedrò un film dove i computer minacciano la nostra libertà saprò che è stato lei a rubarmi l’idea».
Il dialogo mi è tornato in mente qualche giorno fa leggendo l’intervento sul coronavirus di Michel Houellebecq, lusingato perché secondo Catherine Millet la nostra vita in regime di lockdown era stata prefigurata con esattezza in un suo romanzo fantascientifico del 2005, La possibilità di un’isola: «A me il collegamento non era venuto in mente, mentre è assolutamente limpido».
«Se ci ripenso, è proprio quel che avevo in mente all’epoca, riguardo all’estinzione dell’umanità. Niente che assomigliasse a un film spettacolare. Qualcosa di abbastanza mesto. Individui che vivono isolati nei loro cubicoli, senza contatto fisico con i loro simili, giusto qualche scambio via computer, via via meno frequente».
Ora, capisco che abbiamo preso tutti l’abitudine – è ormai un gioco di società – di correre a consultare i romanzi di Houellebecq come le centurie di Nostradamus non appena succede qualcosa d’insolito, scoprendo di volta in volta che aveva profetizzato il terrorismo islamista, la sottomissione dell’Occidente, l’ascesa di Marine Le Pen, i gilet gialli.
Ma quest’ultima è davvero un po’ troppo grossa. Sono cent’anni che la fantascienza – il genere più asessuato della letteratura popolare – immagina forme di esistenza asettiche, igieniche, caste, solipsistiche, disincarnate, sottovuoto, protette da ogni contaminazione con i sensi e la materia. E non c’era neppure bisogno di bazzicare gli scantinati della serie Urania, cosa che alcuni ancora trovano disdicevole. Si poteva restare ai piani alti della letteratura. 
A Santa Barbara, in California, un grande scrittore viennese mette mano al suo ultimo romanzo. È il 1943, e l’ebreo Franz Werfel, che aveva raccontato il genocidio del popolo armeno nei Quaranta giorni del Mussa Dagh, è scappato via da quell’Europa dove i nazisti danno alle fiamme i suoi libri.
Il pianeta dei nascituri – che sarà pubblicato postumo nel 1946 – racconta di un mondo utopico-distopico, centomila anni dopo Cristo, dominato da una razza di uomini iperraffinati che hanno accantonato la loro fisicità, si nutrono solo di essenze distillate, aspirano a riprodurre i processi vitali delle piante e vivono rintanati nelle case sotterranee della megalopoli, usando solo le facoltà mentali. 
Ma prima di Werfel era stato il britannico E.M. Forster, l’autore di Passaggio in India, a immaginare in un racconto qualcosa di molto simile al nostro lockdown. La macchina si ferma, apparso nel 1909, descrive un futuro imprecisato in cui gli uomini, devitalizzati e atrofizzati, vivono ciascuno in una cella esagonale sotterranea, affidandosi alle cure della Macchina che provvede cibo, musica e intrattenimento.
I contatti tra gli esseri umani sono un ricordo lontano: incontrarsi di persona è considerato poco raffinato, darsi la mano non è “decent”, e ci si parla solo attraverso gli schermi della Macchina, che possono comunicare in pochi secondi con tutto il mondo. Finché un giorno uno dei personaggi, il ribelle Kuno, chiede di incontrare la madre senza la mediazione della Macchina… 
Diavolo di un Forster! Altro che Houellebecq: aveva previsto pure il dpcm dei congiunti