Corriere della Sera, 19 maggio 2020
I “Momenti trascurabili” di Francesco Piccolo
«La mattina mi sveglio presto, perché spero di avere il tempo di bermi un’enorme tazza di caffè e leggermi i giornali sull’ipad. Ma mio figlio, che è piccolo, sente i miei passi, mi chiama e dice: ho finito di dormire. In quel momento a me prende un crampo allo stomaco, una specie di materiale pesante che si piazza sullo stomaco e poi tende a scavare come se volesse penetrare». Dopo Momenti di trascurabile felicità e Momenti di trascurabile infelicità, Francesco Piccolo, scrittore e sceneggiatore dalle mille scritture, fresco vincitore del David di Donatello per la sceneggiatura del bellissimo Il traditore di Marco Bellocchio, torna col terzo libro della serie (Einaudi). Si chiama Momenti trascurabili, senza più alcuna specificazione, e pensando a Francesco Piccolo che scrive queste pagine mi viene in mente Philippe Petit, il funambolo che nel ’74 compì il tragitto tra le Torri Gemelle camminando su un filo sospeso a 400 metri d’altezza. I due opposti tra cui Piccolo si muove sono divertimento e commozione, felicità e tristezza, leggerezza e profondità, gioia e dolore. Si muove camminando su questo filo sottilissimo (mi viene da urlargli «Piccolo, non guardare giù!») e non cade. Chiudi il libro e vorresti chiedergli: non è che per caso ti va di rimetterti sul filo un’altra volta? Non è facile far entrare tutte queste emozioni in un unico libro senza sembrare uno che voleva dire tutto, e non ha detto niente. Senza sembrare uno che spinge tutto a forza dentro un libro come fosse una valigia straripante, ci si siede sopra con tutto il peso per chiuderla, forzando, e poi, sudato, spossato, dice senza fiato: ecco, adesso ho fatto.
Cominci a leggere un libro esilarante, pensi di star leggendo un elenco di momenti divertenti (il che, fosse anche solo questo, è tutt’altro che facile), poi a un certo punto ti fermi, rileggi una frase e dici «ehi, ma qui mi viene da piangere, perché?». E poi vai avanti e ti senti sempre più frastornata, una specie di su e giù emotivo. A volte ridi a crepapelle – adoro il capitolo in cui a uno scrittore, durante una presentazione, viene sottoposta la domanda: «Come pensa che si possa risolvere il conflitto tra Israele e Palestina?», e lui prima è naturalmente disorientato e in difficoltà, e pensa, ma perché tra tutte le persone al mondo chiedono una cosa del genere proprio a me?, ma poi lo prende un improvviso quanto assurdo dubbio: e se mi venisse davvero un’idea geniale?, o quello in cui un padre ce la mette tutta per guardare col figlio Transformers 4, un film lunghissimo su una guerra interplanetaria tra camion-mostri. Ma, dopo ore in cui il padre cerca perfino di trovare un senso realistico e insieme mistico nel film, pur di non morire di noia (sono pagine magistrali), non ne può proprio più e supplica il figlio di continuare a vederlo domani: «(poi domani posso comprare un biglietto per la foresta amazzonica e partire improvvisamente, ho pensato)». Ma certo che no, il film va visto ora. E la battaglia finale – che dura un’ora e mezza – sta proprio per iniziare.
A volte ti prende una folata calda dentro, che ti fa bene e ti fa male («La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei – scriveva Parise —, un poco come la vita, soprattutto come l’amore»), come quando un padre e una figlia usano per la prima volta il telepass, il padre teme che non funzioni e «di essere deluso e di deludere mia figlia», allora rallenta, e la figlia sussurra solo «papà, ma era davvero un soffio, e su quel soffio la barra si è alzata». A volte senti un brivido, un sussulto che non è l’horror o il sovrannaturale, ma sono le piccole grandissime paure che cerchiamo di tenere a bada (un uomo ha da sempre paura che sotto il suo letto ci sia un serpente, così ogni notte prima di dormire controlla che non ci sia. «E quasi sempre non c’è»). A volte ridi, senza ritegno, per frasi fulminee che raccontano anche te: il cappotto che quando lo appendi cade sempre, il momento in cui cammini guardingo con una tazza piena in mano e c’è sempre qualcuno che si ferma di botto davanti a te, e «chi mi ridarà indietro tutto il tempo perduto a districare i fili degli auricolari?». Poi però qualcosa ti si accende dentro, torni indietro, rileggi e pensi: chi ci ridarà indietro tutto il tempo perduto?
E così, a partire da un paio di banali auricolari che ti hanno fatto ridere, scavi un po’ e trovi le tue domande più importanti. E pure dolorose. Perché non è che avendo paura di leggere il dolore, poi ne veniamo esonerati. Anzi.
Altre volte, ancora, ti chiedi chi sei tu in una coppia: quello che pensa solo al presente (e che consiglia all’altro di spendere tutti i soldi che avete per andare in Polinesia, ché tanto da un momento all’altro si può morire – mi sa che io sono questa), o quello che pensa solo al futuro e ai progetti a lungo termine (e se poi non moriamo, diventiamo davvero vecchi e abbiamo speso tutti i soldi per andare in Polinesia, cosa pensiamo? «Ci chiediamo perché non siamo morti, mannaggia?»). Esiste una misura giusta, tra la voglia incontenibile di presente e la contezza del futuro, una formula giusta che ci renderà, finalmente, felici?
È inoltre la prima volta in cui Piccolo riflette così sul sentirsi vecchi, e anche qui lo fa con stupore e dolcezza, raccontandocelo attraverso la crescita di un figlio. Un figlio che cresce è un evento miracoloso, ma anche terribile. Perché qualcuno – tuo figlio – di cui ti sei preso cura e che hai protetto come meglio hai potuto per tutta la vita, un bel giorno ti guarda e tutto a un tratto vede la tua debolezza, ma anche la tua finitezza, e in un angolo di sé pensa: adesso sono io che devo badare a mio padre. E allora – se, di colpo, per tuo figlio non sei più la personificazione della forza e della sicurezza, il punto di riferimento a cui rivolgersi per capire il mondo – allora, di grazia, tu adesso chi sei?
Così, dalla risata che sta in superficie passi a quella folata che scende giù, sempre più giù, nel posto dove c’è sempre, anche se a volte per fortuna riesci a tenerla a bada, o perfino a non accorgertene, quella «specie di materiale pesante che si piazza sullo stomaco e poi tende a scavare come se volesse penetrare». Però, che ci sia qualcuno che sa raccontarlo, è come una mano che ti prende quel macigno, lo solleva e ti dice guarda, per adesso lo prendo io, anche il tuo, e per qualche ora tu puoi respirare meglio. Paternità, morte, sesso, amore, relazioni, vecchiaia, matrimoni, feste, piccoli incidenti quotidiani, piccole gioie quotidiane, superficie e profondità, Francesco Piccolo in questo Momenti trascurabili si supera. Anche a lui, come a me, sembra che gli altri vivano sempre «vite più belle della mia», anche a lui, come a me, capita di pensare se è meglio fare sogni belli, così non ti angosci nel sonno, o incubi, così quando ti svegli sei felice. Anche lui, come me, quando c’è qualcuno che cerca di guardargli l’anima farebbe qualunque cosa, si metterebbe qualunque cosa davanti all’anima pur di farla scomparire agli occhi degli altri, anche lui come me si rasserena quando c’è qualcuno che ti indica la meta («in autostrada si è gentili, si va dritti verso una meta e la meta è chiara e indicata da pannelli verdi che cominciano ad avvisarti alcuni chilometri prima»). Anche lui, come me, ha paura di aver sbagliato tutto, o qualcosa di importante, ha paura di invecchiare, ha paura di morire, ha paura di deludere chi ama, vuole essere amato più di tutti e vuole essere speciale, e vuole che gli altri gli dicano che lui è speciale, anche lui ha paura di non amare più la persona che ama da una vita, anche lui s’insospettisce se in autostrada dicono «uscita consigliata», anche lui non vuole mai far benzina al motorino e rimane sempre a terra, anche lui ha paura di essere stato inutile nelle vite degli altri ma lui sa raccontarlo e dice: «Il risultato di tutto questo è che ho cominciato a ritrovarmi pieno di ricordi, e la memoria è principalmente insopportabile». E poi aggiunge: «Specie con le fidanzate».
Ora. Quello che mi stupisce, anzi mi rende sicurissima che la sua vita sia molto, ma molto più bella della mia è che Piccolo scrive sceneggiature (per esempio quella della serie tratta da L’amica geniale di Elena Ferrante), romanzi (con Il desiderio di essere come tutti ha vinto il Premio Strega), libri-momenti come questo e un milione di altre cose e ogni volta c’è un Piccolo diverso. Un Piccolo esilarante, un Piccolo politico, un Piccolo narratore puro, un Piccolo maschio, un Piccolo femmina. Questo potere è come quello dei camion del film Transformers 4, che da semplici camion si trasformano in mostri buoni o cattivi sotto gli occhi della gente. Ma come fa? Forse ci riesce perché vede qualcosa dentro «ogni singolo gesto, i sapori, l’aria, il tempo, la stoffa, la strada, la persona accanto, il profumo, il panorama, il vento, la porta, il sorriso. Ma tutto, tutto». E forse è così che accade che, come dice lui, «la vita non finisce più».