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 2020  maggio 19 Martedì calendario

Intervista a Michele De Lucchi

Michele De Lucchi, radici all’Olivetti e nel gruppo Memphis, più volte Compasso d’oro, autore dei padiglioni dell’Expo e delle Gallerie d’Italia di piazza Scala, riorganizzatore degli uffici postali e di innumerevoli oggetti e edifici che caratterizzano il nostro presente, sta per tornare a Milano dopo una quarantena passata sul lago. È il primo mattino del Nuovo Corso e di scenari inventivi si sente molto il bisogno.
Architetto, oggi che l’ossessione sono i metri di distanza e le orrende barriere di plexiglas, può aiutarci a volare un po’ più in alto?
«Ma quelli sono gli strumenti per affrontare l’emergenza, che speriamo finisca il più presto possibile. Torneremo a pensare più ottimisticamente: non credo che il mondo futuro sarà fatto di mascherine e di guanti e di schermi. Voglio sperare che si torni a pensare a come migliorare la nostra condizione di vita e non solo a evitare la pandemia. Certo questo periodo ci ha insegnato molte cose, e speriamo che ci rimangano bene impresse».
Le più importanti?
«Il senso di responsabilità, l’attenzione a quel che vuol dire vivere insieme. La consapevolezza che non possiamo manipolare la natura come vogliamo, ma che dalla natura siamo profondamente dipendenti. Poi c’è la questione della digitalizzazione».
Grandemente accelerata, anche se non è una novità.
«Adesso, però, ci ha mostrato tutti i suoi vantaggi. Da un pezzo lavoravamo in remoto e con le videocall, ma dopo tre mesi vissuti soltanto con questi strumenti abbiamo capito di poterne approfittare molto di più. E tuttavia una cosa non esclude l’altra, e glielo spiego da vecchio olivettiano».
Cioè?
«Nell’azienda illuminata dove ho fatto la gavetta mi hanno insegnato che il mestiere dell’architetto è creare diversità, perché devi giungere a una riconoscibilità che renda le tue cose uniche e memorizzabili sul mercato. Il Covid-19 non ci ha resi tutti uguali. La ricerca della diversità deve proseguire. E non ci sarà "un" futuro dettato dalla pandemia, ma tanti futuri, per ogni realtà e ogni cultura: non soltanto quello che stiamo progettando per difenderci dal contagio. All’Olivetti ci siamo accorti che la macchina da scrivere non eliminava le penne e le matite, e poi che il computer non sostituiva la carta e i libri. Torneremo a pensare alla meraviglia del mondo, fatto di molte sfaccettature».
C’è chi dice che le città così come le conosciamo siano condannate. Che ne pensa?
«Non credo che verranno abbandonate, che non vivremo più vicini e che non ci saranno più assembramenti. Speriamo tutti che non si verifichino adesso perché sono pericolosi. Ma dopo, speriamo bene che ci siano. Non possiamo fare a meno del fascino dello stare insieme anche fisicamente. Con questo, non nego che molti in città faticheranno a starci o a ritornarci. Il mio è un caso molto fortunato: ho passato una quarantena comoda, sul lago Maggiore, in campagna, a casa ».
Lei ha disegnato alcuni degli edifici simbolo dell’Expo. Cinque anni fa, ma sembra passato un secolo.
«Rimango convinto che questo del virus sia un episodio: non sappiamo quanto sarà lungo, ma passerà. Torneremo a vivere e anche a quelle occasioni come il Salone del mobile o quello del libro. Torneranno e saranno ancora più belli, ancora più goduti proprio perché abbiamo capito quanto sia una fortuna averli. Del resto, nessuno come gli italiani è capace di organizzare feste. Pensi ai veneziani, che le ville in terraferma le avevano costruite proprio come scenari favolosi per le feste. Torneranno i fuochi d’artificio, stiamo solo aspettando il momento giusto».
Lei è un famoso creatore di oggetti. Quali ne useremo di nuovi nei futuri ci aspettano?
«Due anni fa ho fondato il Circle, un’idea diversa di studio di architettura, una vera comunità a cui tutti partecipano con pensieri e competenze per tentare di fare qualche passo in più. Le ricerche che abbiamo lanciato riguardano nuovi modi di intendere alberghi, centri commerciali, negozi, musei. Stavano già emergendo modelli di evoluzione che con quello che è successo diventano sempre più evidenti e perseguibili».
Per esempio? 
«In albergo non si va più tanto per dormire, ma per partecipare a qualcosa che lì sta per succedere. In ufficio non si va più per mettersi in una fila di scrivanie l’una uguale all’altra e guai a chi inserisce l’elemento di versificatore: dovrebbero evolversi in luoghi dove si raccolgono le conoscenze, le ambizioni e il senso della comunità, fisica o digitale che sia. Gli spazi diventano più vivibili, più educativi. Ecco un altro insegnamento della pandemia».