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 2020  maggio 18 Lunedì calendario

Powfu, Fudasca e Kina: il nuovo filone lo-fi hip hop

C’è una nuova musica nell’aria. Anzitutto nuovo è chi la può (o la sa) ascoltare: predisposizioni genetiche a parte, bisogna avere tutti i capelli, e senza fili bianchi per apprezzare il lo-fi. Che nuovo non è, essendo nato tra gli anni Ottanta e Novanta come suono sporco e di bassa qualità tecnica, in contrasto con quella alta dell’hi-fi. Però i suoi attuali alfieri – che lo mescolano al rap e infatti si chiama lo-fi hip hop – allora non l’avevano conosciuto per l’ottimo motivo che sono nati dopo, a cavallo tra i millenni. Ancor più giovane è il suo pubblico, gli adolescenti, che lo scopre su nuovi social come Tik-Tok o le app di chat e lo usa come sottofondo per studiare o dormire, visto che ha ritmi lenti e ripetitivi, vagamente ipnotici. O magari riflettere su una vita breve ma già tumultuosa di quei meravigliosi tumulti fatti di certezze di burro e dubbi di marmo.
Risultato, cifre di ascolti da star mondiali. Prendiamo Powfu, 21enne di Vancouver (forse non a caso, la città è magnifica quanto malinconica): la sua Death bed al momento supera i 320 milioni di ascolti su Spotify e i 150 su YouTube, senza contare le vagonate di videoclip artigianali che la usano di sottofondo. «Va avanti da tempo – racconta Isaiah Faber, il suo vero nome – ma ancora non mi pare normale. Giorni fa ho visto un video su YouTube dove dei teenager la suonavano alla chitarra. La sapevano tutti». Il mood tristissimo e romanticissimo di Death bed non è un dettaglio, visto che il lo-fi hip hop si basa molto sui sentimenti, la malinconia, la voglia di rimpannucciarsi in una cameretta, al caldo e al riparo dalle brutture del mondo. Sentimenti già forti pre-Covid, figuriamoci ora, che riguardano i fan e gli artisti stessi, che creano senza uscire di casa, tra sintetizzatori elettronici e scambi di email. Quasi una colonna sonora degli hikikomori giapponesi, gli adolescenti che si negano alla vita sociale. «Forse è vero, ci sentiamo un po’ diversi dal mondo, noi. Ma anzitutto musicalmente. Far musica di scarsa qualità tecnica è una scelta, è parte della nostra estetica. E sapere che siamo ascoltati dappertutto ci rende parte di una comunità, però di sconosciuti, cosa che stimola e tranquillizza al contempo».
Il romano Fudasca, altro guru del lo-fi hip hop, un anziano coi suoi 24 anni, conferma tutto: «Questa musica è generazionale e motivazionale. Il mondo che ci stiamo ritrovando lo vediamo, e quel che facciamo io e gli altri non può essere definita una medicina, ma un aiuto sì. Noi ci rivolgiamo a chi ha problemi di ansia e depressione, e tra quelli della mia età sono tanti. Il nostro hip hop è quanto di più lontano da quello tutto esaltazione, sesso, droga e catenoni d’oro di tanti artisti. Però non mi sento un eroe, un simbolo, direi più un portavoce. Poi so benissimo che in futuro cambierò come artista perché cambierò come persona». Per intanto quel che è e quel che fa gli è valso un contratto dalla Sony, che ha ingaggiato anche Powfu (con cui Fudasca ha collaborato assieme a Rsexyboy e Snøw in Make you mine ): «Quando mi è arrivata l’email l’ho presa per spam. Anche perché la nostra musica è così particolare che non pensavo potesse interessare una major». Particolare anzitutto da un punto di vista tecnico: il lo-fi hip hop è un suono liquido, elettronico, di melodie ossessive, campionate, perfette per riprenderne un qualunque tocco per clip brevissime come quelle di TikTok, che durano tra i 15 e i 60 secondi. D’altronde siamo nella civiltà dello spezzettamento, del Blob, dei “pezzi di come, pezzi di così”, per dirla alla De Gregori. È come se la ripetizione in loop fosse una sicurezza, un’ancora cui aggrapparsi. «Di sicuro anche 15 secondi possono bastare perché chi li ascolta ci si rispecchi, è proprio questione di menti giovani, formatesi così».
Queste musiche hanno un percorso classico. Partenza quasi clandestina, quindi prima o poi finiscono su Spotify e YouTube, dove ci sono canali che scoprono e lanciano i talenti, su tutti The bootleg boy, quasi 900 milioni di clic. E lì, il boom. Per dire, tra le due piattaforme di streaming è stata sentita circa mezzo miliardo di volte Get you the moon, di Kina, altro eroe nostrano di questo sound, che lui definisce “Kina- mood”. Il quale però allarga un po’ il discorso: «Non è solo un discorso generazionale. Certo, ho 21 anni, ma se sono quel che sono e se suono quel che suono è più per esperienze personali e per l’essere di Acerra, in mezzo alla Terra dei fuochi, posto dove di prospettive ce ne sono poche per tutti. E io con la mia musica combatto per cambiarlo, il mondo, per farmelo piacere». Nel frattempo è andato a vivere a Lisbona, «ma non è stata una fuga, semplicemente è una città fatta di piccoli dettagli che spronano a dare il massimo. E la saudade mi si confà benissimo».
Saudade, tradotta a spanne, malinconia, e torniamo sempre lì. «Sì, però un buon 10% di chi mi ascolta ha almeno 60 anni, viene dal lo-fi delle origini. A chi ha una certa età e mi chiede di spiegargli questa musica faccio ascoltare solo la parte strumentale, E allora capisce la complessità». Forse anche per questo il lo-fi hip hop “is here to stay”, è qui per restare, come si diceva del rock 60 anni fa: «È come rap e trap: esploderà. I numeri iniziano a darci ragione, ma è solo questione di tempo». D’altronde anche i giovani d’oggi prima o poi erediteranno il mondo, o no?