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 2020  maggio 17 Domenica calendario

Il gol nel deserto fra la normalità e l’ipocrisia

Il primo gol in Europa occidentale dopo la Grande astinenza va preso con filosofia. E dunque: se Erling Haaland segna nello stadio deserto e nessuno impazzisce di gioia, è vera felicità? Il momento, dopo 28 minuti e 4 secondi di gioco (o qualcosa che gli assomigliava) è stato un perfetto spartiacque: tra l’eccezionale e l’ordinario, tra la complessità delle proposte e la banalità delle soluzioni. Tutto quel che è successo prima, come tutto quel che è avvenuto dopo, è apparso confuso e a tratti ipocrita. Il gol di Haaland è stato lineare e inevitabile. Poi, al solito, bisogna scegliere tra realtà e percezione, come tra obiettività e interesse. E comunque: per quasi un tempo siamo stati scarrozzati sul pianeta Pa-palla. Uno o più continenti che da settimane seguivano il calcio della Bielorussia (ieri il big match tra Bate e Sluck) si sono sintonizzati su qualcosa di più familiare: la Bundesliga. Quel che si è visto è stato: il rovente derby della Ruhr con gli altiforni spenti e gli spalti vuoti; giovanotti smarriti che percorrevano i corridoi dallo spogliatoio al campo come vicoli di una città sconosciuta; una palizzata di tori rossi a evocare una carica d’energia a Lipsia; mascherine diffuse a macchia di leopardo, qualcuno sì, qualcun altro no; distanziamenti in panchina e contatti in campo; arbitri insolitamente indulgenti col tocco di mano proprio ora che è severamente proibito. In un torneo con la media di oltre 3 gol a partita, quasi mezzora senza una sola rete su cinque campi.
L’impressione, quella di assistere a una prova: vuoto il teatro, agli attori hanno dato un copione ritoccato perché l’originale non funzionava più, non tutti hanno avuto tempo di prepararsi, il regista è andato a farsi un goccio nei camerini, le maestranze pensano che non dovrebbero trovarsi lì, non per quel che le pagano. Il sentimento trasparente è che la messinscena abbia perduto, se non legittimità, credibilità. Le battute escono fiacche. Poi succede che il Borussia Dortmund reciti a soggetto: Brandt s’inventa un colpo di tacco per lanciare Hazard sulla fascia, cross per Haaland che non ha ancora vent’anni e vuole il futuro che gli è stato promesso, pandemia o no. Impatta come ha fatto nel calcio europeo: segnando. È un istante di assoluta normalità: accade quel che doveva accadere e si ripeteva puntualmente fino a febbraio: qualcuno scherza con il pallone, qualcun altro lo passa, Haaland fa gol. Le traiettorie sono induzioni, gli effetti assecondano previsioni. È il lampo nell’oscurità che ripropone l’immagine di un mondo rassicurante perché segue un progetto e si sa che da qualche parte esiste la contromisura, lo schema o il difensore che può bloccare Haaland. Un attimo di tregua.
Poi tutto ridiventa improbabile: i compagni festeggiano con sorrisi e applausi, come se il primattore avesse raccontato bene la sua barzelletta; altrove si danno di gomito, dopo essersi incollati in barriera; qualcuno sputa; uno centra con una cannonata il microfonista, mai così vicino alla linea del fuoco. Poi, finisce. Che cosa abbiamo visto: l’unico modo possibile di amare il calcio o pornografia sportiva? In un pomeriggio di maggio in una vallata della Germania è caduto un albero, ma nessuno lo ha sentito. Ha fatto davvero rumore? La disputa non tocca a filosofi come Berkeley e Locke, ma a Conte e Spadafora, Gravina e Dal Pino. Prenderà quindi una diversa piega. Riguarda tutti noi: la nostra vita assomiglia a un gol di Haaland o a tutto quel che la circonda?