la Repubblica, 17 maggio 2020
Da ultimo venne il primario
Si parla e si legge del ritorno ai campi di qualche migliaio di italiani con sbalordimento. Come se il settore chiamato primario arrivasse, buon ultimo, in fondo a una lunga serie di altre opzioni tutte più ovvie e più percorribili, una specie di disperata mossa dettata dalla costrizione. Da ultimo, venne il primario. Eppure è piuttosto breve il percorso che ci separa dal nostro passato contadino. Un paio di generazioni, forse tre. Questo significa che la rimozione di quel passato è stata rapida e totale.
Le scarpe sporche di fango, le mani segnate dallo sforzo ricordano la fatica e la fame, la soggezione a padroni visibili, e duri. Il potere che governa i nuovi lavori e soprattutto i consumi spesso non ha volto e non ha nome. Non sentiamo il suo fiato sulla schiena mentre siamo chini sul computer o spingiamo il carrello dell’ipermercato pieno di cose utili, meno utili, del tutto inutili. Crediamo di essere più liberi anche perché la struttura di classe della società è finita sotto traccia. Sparita. Invisibile. Un gioco di prestigio.
Nel frattempo abbiamo continuato a mangiare, ma perdendo quasi ogni rapporto con la natura, ivi compresa la natura addomesticata dal lavoro agricolo. La filiera del cibo è sparita dal nostro sguardo urbanizzato. L’emergenza l’ha disseppellita, ci siamo ritrovati davanti senza preavviso l’urgenza di braccia, mani, gambe, schiene, arnesi. Il lavoro non solo in carne e ossa, ma localizzato proprio su quel metro, quello lì, dove c’è la verdura da raccogliere, il tralcio da potare. Il contrario preciso dello smart working. E anche la brusca smentita che il mondo possa diventare per davvero immateriale senza (ben prima) morire di fame.