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 2020  maggio 17 Domenica calendario

Koh-i-Nur, il diamante caduto dal cielo

Narra un celebre testo di antichità indiane, il Garuda Purana (seconda metà del I millennio d.C.), che tutte le gemme, anzi i loro semi, furono generate dalle membra recise di un demone che generosamente aveva accettato di lasciarsi sacrificare dagli dèi per il bene dell’universo. I semi piovuti sulla terra avevano dovunque dato origine a depositi di gemme. Le più belle erano i diamanti, nelle cui schegge si credeva dimorassero gli dèi e che si pensavano forniti di straordinarie doti di portafortuna; capaci di procurare ai proprietari «prosperità, longevità, proliferazione di mogli e progenie e animali domestici», nonché di proteggere da veleni, incendi e inondazioni. Capaci perfino di salvaguardare dai furti! Quest’ultima qualità sembra proprio in controtendenza rispetto all’attrattiva esercitata dai diamanti sui ladri...
In effetti, due altri antichi testi indiani di mitologia, il Bhagavata e il Vishnu Purana, si incaricano di controbilanciare l’ottimismo del Garuda, inaugurando l’opposta convinzione: i diamanti, soprattutto se grossi, sono pietre maledette, votate a lasciarsi dietro una scia di devastazione (salvo che i possessori non siano uomini assolutamente puri, requisito, come ben si sa, piuttosto raro). Il cliché attraversa imperturbabile i secoli, giungendo «fino al cuore della letteratura inglese» dove principalmente si applica al Koh-i-Nur, la “Montagna di luce”. La storia veritiera di questa pietra leggendaria, peraltro realissima e custodita nella Torre di Londra, è finalmente ricostruita da William Dalrymple e Anita Anand nel libro omonimo Koh-i-Nur. La storia del diamante più famigerato del mondo che uscirà per Adelphi il 21 maggio nella traduzione di Svevo D’Onofrio, scorrevole e piacevole come la scrittura dell’originale.
Ho scritto “finalmente” perché, a dispetto della notorietà del soggetto, le notizie sulle sue straordinarie venture e sventure risalgono (quasi) tutte alle ricerche di Theo Metcalfe, un giovane assistente magistrato a Delhi festaiolo e superficiale. Non privo tuttavia di un certo fascino, questi era stato incaricato da Lord Dalhousie, viceré dell’India, di compiere ricerche sulla storia del diamante che l’ultimo maharaja del Panjab, il decenne Duleep Singh, era stato costretto a cedere arrendendosi nel 1849 agli inglesi. Sciatto e sfaticato, Theo compila il rapporto più o meno con chiacchiere da bazar: la relazione debutta riferendo pari pari la convinzione dei gioiellieri di Delhi che il diamante fosse stato estratto all’epoca di Krishna, il dio pastore manifestazione di Vishnu, cioè nel 3150 a.C. circa secondo la tradizione indiana! E via di questo passo, con scrittura briosa ma non supportata né da serie ricerche né da una documentazione. Eppure la versione del rapporto di Metcalfe, ripetuta senza verifiche per oltre centocinquant’anni, è rimasta il riferimento pressoché unico per la storia del Koh-i-Nur. Fino appunto al lavoro egregio di Dalrymple e Anand, fondato su accurate ricerche favorite dai temi contigui già studiati dal primo per altre opere come ad esempio Il ritorno di un re, pure pubblicato da Adelphi (2015).
Il Bhagavata Purana ricordato sopra riferisce la storia tormentata e sanguinosa del Syamantaka, diamante che ornava il collo del dio Sole e che, donato a un umano, avrebbe presto scatenato le passioni peggiori. Sta qui l’archetipo narrativo della pietra maledetta e la «scia mitologica di cupidigia, rapine e bagni di sangue rispecchiava a tal punto la vera storia cruenta del Koh-i-Nur che, nel XIX secolo, molti pii indù iniziarono a identificare il diamante con il Syamantaka delle leggende di Krishna». Ma il primo verosimile riferimento storico al Koh-i-Nur, che peraltro non è mai stato nemmeno in Asia il diamante più grande noto al mondo, risale all’epoca di Babur (1483-1530), il fondatore nel 1526 della dinastia imperiale dei Moghul. Nel suo affascinante diario, il monarca ricorda una pietra pervenutagli per conquista di cui gli esperti indiani avrebbero «stimato il valore in due giorni e mezzo di cibo per il mondo intero»; il peso originario in termini occidentali è stato poi calcolato in 186 carati. Humayun, il figlio di Babur, perde il regno (che riconquisterà), fugge abbandonando tutto e tutti e porta con sé solo un sacchetto di preziosi; svagato com’è, se lo dimentica nel fare le abluzioni e lo recupera solo grazie all’attenzione e alla devozione di un suo valletto. Al momento opportuno, quelle gemme gli salveranno la vita.
Vicissitudini diverse, tra le quali un furto sfrontato, portano l’enorme diamante a scomparire per un secolo dal panorama della corte dei Moghul e a tornare «incastonato in cima al Trono del pavone» cioè il trono dei Moghul «saldato sulla testa di uno dei volatili che lo sovrastavano». Nel 1739 Nader (1688-1747), Shah di Persia, muovendo da Kandahar in Afghanistan di recente conquistata, attacca, espugna e saccheggia Delhi dove regnava Muhammad Shah (1702-1748), raffinato esteta ma monarca incapace: il massacro è immane quanto il bottino che il vincitore riporta in patria su «700 elefanti, 4mila cammelli e 12mila cavalli che tiravano carri carichi d’oro, argento e pietre preziose». Ne fa parte anche il Koh-i-Nur, ancora svettante sul Trono del pavone in buona compagnia con il non meno leggendario (non però in Occidente) Rubino di Tamerlano. Secondo il rapporto dello svogliato Theo Metcalfe, invece, la pietra era stata nascosta da Muhammad Shah nel proprio turbante; i due sovrani se li sarebbero scambiati a sanzione dei loro accordi e Nader Shah, vedendola, avrebbe esclamato «Montagna di luce», Koh-i-Nur appunto! Mitologia: nessuna delle numerose fonti coeve ne parla, la storia comincia a circolare più di cent’anni dopo. È invece documentato che il nome sia stato attribuito alla pietra proprio all’epoca di Nader Shah. 
Questi fa staccare dal Trono le due gemme più famose cominciando a indossarle; soldato geniale, ma sovrano sanguinario e crudele soprattutto negli ultimi anni, finisce tradito e decapitato. A onor del vero, peraltro, della sua fine non si può ritenere “responsabile” il solo Koh-i-Nur... semmai il suo appetibile tesoro che ne aveva fatto il monarca di gran lunga più ricco del mondo. Qui però cominciano – se così si può dire – le malefatte individuali del Koh-i-Nur, donato dalla prima donna dell’harem di Nader Shah al generale afghano Ahmad Khan che, dopo l’uccisione del sovrano, aveva difeso il tesoro dallo sciacallaggio dei congiurati: malefatte come torture raccapriccianti inflitte o subite per il suo possesso, tradimenti osceni, orrende malattie, menzogne tendenziose diffuse ad arte, anche via stampa... il tutto intrecciato alle carneficine, ai saccheggi, agli sfarzi indescrivibili, alle truffe legalizzate (da parte inglese) che segnano la storia dell’Afghanistan, del Kashmir, del Panjab all’incirca fra gli inizi del Settecento e la metà dell’Ottocento.
Molto ben documentato, il libro di Dalrymple e Anand rappresenta le vicende del diamante e della complicatissima storia di mezzo mondo in maniera molto vivace. Con il Trattato di Lahore del 29 marzo 1849, il Koh-i-Nur diventa proprietà britannica, ma le sue virtù malefiche non sembrano estinguersi: si segnalano così il destino infelicissimo del deposto re bambino Duleep Singh, ultimo suo possessore asiatico, i soldati britannici che tentano (subito a Lahore!) di svaligiare la tesoreria, il colera e la tempesta che colpiscono la corvetta Medea – nome profeticamente funesto – durante il trasporto della gemma da Bombay a Plymouth... tutto questo, naturalmente, non impedirà le lunghe code che si snoderanno nel Palazzo di cristallo della Grande Esposizione del 1851 per acclamare il Koh-i-Nur, prontamente prestato dalla regina Vittoria.