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 2020  maggio 17 Domenica calendario

Il lavoro obbligatorio per tutti

Cinquant’anni or sono veniva promulgato lo Statuto dei Lavoratori: legge 300 del 20 maggio 1970, che definisce le «Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento» (GU 131 del 27 maggio 1970). Si trattava a un tempo di dar corpo all’articolo 1 della Costituzione: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro» e di limitare gli abusi nel controllo dei lavoratori da parte delle aziende, come immediatamente segnala l’articolo 2: «Guardie giurate. Il datore di lavoro può impiegare le guardie particolari giurate, di cui agli articoli 133 e seguenti del testo unico approvato con regio decreto 18 giugno 1931, numero 773, soltanto per scopi di tutela del patrimonio aziendale. Le guardie giurate non possono contestare ai lavoratori azioni o fatti diversi da quelli che attengono alla tutela del patrimonio aziendale». Il controllo, per evitare che fossero trafugati pezzi o utensili, poteva arrivare – all’uscita ai cancelli – all’ispezione corporea; gli operai piemontesi designavano l’operazione con un termine a un tempo esatto e sprezzante: fugné [dal francese: fouiller, rovistare, cercare con cura strato a strato], fare la fogna ai lavoratori. Lo Statuto la disciplinava nell’articolo 6: «Visite personali di controllo».
Il lavoro è stato nei millenni condanna e redenzione: condanna sin dalla Genesi, dopo il peccato di Adamo ed Eva: «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane. (…) Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse la terra da dove era stato tratto» (III, 19, 23). Ancora, nei secoli, fatica di schiavi e, ultima abiezione umana, soglia dei campi di sterminio: «Arbeit macht frei». Eppure esso, non il benessere o la libertà, apre la Costituzione italiana; i lavori dell’Assemblea Costituente testimoniano la difficile sintesi; e Piero Calamandrei ne vide i limiti (quale “fondamento” c’è, se non c’è lavoro?) osservando: «penso agli oziosi, penso a coloro che vivono di rendita, a coloro che vivono del lavoro altrui. Nella Repubblica italiana, dove c’è il dovere di compiere un’attività o una funzione, coloro che vivono senza lavorare o vivono alle spalle degli altri saranno ammessi come soggetti politici?» (seduta del 4 marzo 1947).
La preoccupazione non era solo dei comunisti che volevano una «Repubblica dei lavoratori», ma anche di molti riformisti da Ernesto Rossi, Per abolire la miseria (1945) a Massimo Olivetti, Per viver meglio (1947-1949); entrambi proponevano una “leva del lavoro”, in luogo di quella militare, che provvedesse ai bisogni primari della ricostruzione. Occorre anzi ammettere che quella “leva del lavoro” ha molti antenati (più noti i falansteri e le falangi di Charles Fourier che ebbero larga fortuna nel XIX secolo, sino alla celebre dichiarazione di Karl Marx sul «drapeau rouge, symbole de la République du travail», in La guerre civile en France, cioè la “Commune”, 1871), ma un antesignano si segnala in particolare, l’abate Carlo Denina (Revello, 1731-Parigi, 1813), del quale esce ora l’inedito trattato Dell’impiego delle persone.
Egli era celebrato autore delle Rivoluzioni d’Italia, 1769-1770, la «prima storia generale di nostra gente», come ebbe ad affermare il Carducci nel suo Risorgimento italiano. Già nell’ultimo libro di quell’affresco storico, il Denina osservava che «le comunità religiose potrebbero tuttavia essere utili alla civile società nel temporale (…), o coltivando terreni o esercitando arti meccaniche» (XXIV, 5). Il nuovo trattato (1776-77) prevedeva, più nettamente, che tutti dovessero lavorare, nobili, sacerdoti, monache e monaci compresi, e pure i soldati con corvées in tempi di pace; certo le idee sollevarono ostilità alla corte sabauda e il Denina fece stampare il volume a Firenze. Nondimeno esso fu sequestrato e bruciato su pubblica piazza (l’ultimo rogo di libri in Antico Regime); lo studioso privato dell’insegnamento universitario e confinato nel seminario di Vercelli, sinché non lo trasse Federico II di Prussia per chiamarlo a Berlino (1782). Rimane, alla Biblioteca Nazionale di Torino, un manoscritto disordinato, mutilo dell’incipit, con capitoli riscritti, cancellature, pentimenti; gli Eredi tuttavia hanno conservato, con gelosa cura, una copia in pulito del manoscritto inviato alla stampatore Cambiagi di Firenze, che doveva servire al riscontro delle bozze, ed è quella che ora torna in luce. Il saggio, attenuato, venne pubblicato molto più tardi, in epoca napoleonica (1803) dal nipote Carlo Marco Arnaud, con il rimpianto di dover constatare che molti progetti novatori erano stati fatti propri o superati dai recenti eventi rivoluzionari. Se fosse apparsa al suo tempo, dodici anni prima della Rivoluzione francese, l’Italia delle Riforme avrebbe un testimone di rilievo europeo. Non tanto nella pars destruens alla Parini: «pur troppo spesso anche succede che una mal consigliata devozione degeneri in soverchia indolenza, e talora in vera poltroneria», ma soprattutto nella pars construens, di luminoso impegno riformatore: «L’educazione debbe essere pubblica, lunga, ed universale»; bisognerebbe che «l’industria si introducesse ne’ chiostri, e se ne mantenesse viva la pratica» e «i preti, anziché mendicar limosine di messe, si procaccino il vitto con qualche arte mecanica». E certo la manzoniana Monaca di Monza trova qui le proprie antesignane, troppo avvezze alle «galanterie»: «e meno si conviene alle case religiose di ammaestrarle a lavorar galanterie, serventi a nodrire la vanità, ed il lusso, che cose usuali e necessarie». 
Non era il Denina un chierico assetato di radicalismo, se non di uno: quello di riportare la societas christiana al tempo dei Padri della Chiesa, alla regola di san Benedetto, alla sobrietà necessaria per raggiungere la «pubblica e privata prosperità»: nelle sue fonti campeggiano continuamente i decreti dei Concili dei primi secoli: «Agostino e san Basilio fanno parimente menzione di vari sacerdoti che, ad imitazione di san Paolo, col lavoro delle proprie mani si procacciavano il vitto; e molti Concili antichi se non l’impongono, lo raccomandano certamente».
Lavorare tutti, per il bene comune, e per trovare una più civile uguaglianza, nella scia di coloro che «cercarono per quanto fu possibile di avvilire ed abolire i privilegi e i diritti dell’antica nobiltà». Tale il lascito del Denina, che non esitava a bollare di indegnità coloro che, privilegiati, non fanno che «serrare barbaramente la strada all’ordine inferiore», «violando in tal modo le più sacre leggi della natura e della umanità».