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 2020  maggio 17 Domenica calendario

Salvatore Accardo rievoca Paganini

«Quando suonerà i Capricci? Quando?». Era almeno la quinta volta che mio padre lo chiedeva. Stavamo sulla porta di casa di Luigi d’Ambrosio, a Napoli, dove andavo a prendere lezioni. Avevo otto-nove anni. Papà, di mestiere incisore di cammei, aveva una grande passione per il violino e non vedeva l’ora che suo figlio si cimentasse con lo spettacolare virtuosismo di Paganini. «Don Vincenzo, se me li domandate ancora una volta questi Capricci, finisce che vi butto tutti e tre dalle scale: lei, suo figlio e il violino».
Così rispose il maestro. A ragione. Sarebbe stato un errore portarmi troppo presto al confronto con brani così difficili. Me lo spiegò con chiarezza: «Vuoi suonare fino a ottant’anni o smettere a venticinque?». Gliene sono ancora grato. Perché dal punto di vista fisico la scrittura di Paganini chiede una mano particolare, aperta, con muscoli e tendini di notevole elasticità. Specchiava la malattia di cui era affetto, la sindrome di Marfan, per cui non aveva giunture e tessuto connettivo. Sarebbe stato sbagliato imporre prove di quel genere a un bambino. Così il mio primo Paganini arrivò al momento giusto, dopo tutto il percorso canonico degli Studi di Kreutzer, di Fiorillo, di Rode, di Dont. L’iter corretto, per arrivare ai fatidici Capricci: avevo tredici anni quando li eseguii tutti insieme, in pubblico, al Conservatorio di Napoli, il San Pietro a Majella, scuola prestigiosa, dove ormai studiavo. Fu allora un incontro fondamentale: in quelle pagine trovai tutto lo scibile per lo strumento. Esattamente come nelle Sonate e Partite di Bach. La Bibbia, per noi violinisti, musicale e tecnica. Lì conobbi il violino.
Paganini viene sempre descritto come un saltimbanco, invece era un grande musicista. Genialmente riportò sul proprio strumento lo stile del melodramma, che allora aveva intorno. Lui, amico di Rossini, Bellini, Donizetti, non si cimentò mai con l’opera, ma ognuno dei suoi Concerti per violino è una piccola opera: in miniatura ci trovi l’Ouverture, i recitativi, il cantabile, la cabaletta, ossia le forme del teatro dell’Ottocento. Che fosse un grande artista lo sapevano, i contemporanei. Infatti Rossini diceva: «Meno male che Paganini è impegnato a scrivere per violino». Per noi interpreti è fondamentale riferire le sue composizioni a quel mondo, le dobbiamo interpretare come intrise di melodia, di canto. Schubert, proprio lui, ascoltandolo dichiarò: «Ho sentito suonare un angelo». Un angelo. Non un diavolo, come volevano i più, tramandando così la leggenda del musicista demoniaco. «C’era puzza di zolfo», scrisse Goethe, dopo aver seguito un suo concerto. Zolfo? Ma saranno state le candele, che illuminavano la sala!
Questa immagine di Paganini ha molto condizionato l’interpretazione della sua musica. Svalutandola, sminuendola. Facendoci dimenticare che il violino di Paganini incarna l’anima del canto, utilizzando in maniera meravigliosa tutta la vasta gamma di suoni dello strumento, dal sol grave al mi acuto. Ricordo che una volta Riccardo Muti diede una lezione ideale: ero con la sua Philadelphia Orchestra, negli Stati Uniti, e per spiegare ai musicisti lo stile di Paganini chiese di non pensare a Verdi, ma a Mozart. Il suono cambiò subito, uscì trasformato. Molta colpa dell’avversione della critica musicale nei confronti di Paganini deriva proprio dalle cattive esecuzioni, dove da un lato si dimentica la cantabilità e dall’altro si cambia quanto indicato sui pentagrammi: un picchettato in su o in giù viene tolto, i doppi armonici vengono semplificati, note sulla quarta corda si spostano sulla terza, tagli... Così mentre il solista fa quello che vuole, il direttore si tira indietro, pensando: tanto la star è lui, il violino. Noi orchestra accompagniamo, non siamo importanti. Errato, qui sta lo sbaglio. Paganini viene snaturato. Questo è anche il motivo per cui in tanti – anche grandissimi – non lo hanno mai toccato: ad esempio Heifetz e Stern. A Oistrakh chiesero perché non lo suonava. E lui: «Perché non sono capace». Non era vero. Avrebbe potuto benissimo. Ma aggiungeva: «Paganini lo deve suonare Accardo». Kogan aveva in repertorio il Primo Concerto, e gli veniva meravigliosamente bene anche se sembrava Ciaikovskij. Invece che incanto le esecuzioni di Ruggero Ricci o di Francescatti. Loro i grandi maestri. 
Il mio Paganini iniziò ufficialmente nel 1958, con la vittoria al Concorso di Genova. Fu un premio che da un certo punto di vista mi fece molto bene: ero il primo italiano a vincere, il primo assoluto; e poi avevo diciassette anni, di colpo ricevetti molte attenzioni. Però insieme mi si appiccicò l’etichetta di Accardo uguale Paganini. Perciò dopo un po’ mi stancai, la vedevo come una diminuzione, una chiusura verso il rimanente repertorio. Così smisi del tutto di proporre Paganini. Solo nei bis, giusto un assaggio. Mi dedicai invece a tutto il resto, suonando soprattutto tantissima musica da camera, che è fondamentale per la crescita di un musicista: ti insegna a suonare ascoltando. Come dico ai miei allievi, ti insegna a vivere. Ti porta a vedere dove la tua libertà finisce e inizia quella dell’altro. In puro dialogo.
Dopo una lunga pausa, ripresi Paganini nel 1982. Cadevano i duecento anni dalla nascita del compositore, e la città di Genova mi diede la possibilità di suonare il suo violino: lo avevo già provato, quando avevo vinto il Concorso, al concerto di premiazione, e poi in qualche altra occasione. Ma qui fu un incontro continuativo, nel senso che portai il famoso Cannone, il Guarneri del 1743, in giro per il mondo: Parigi, New York, Londra, Madrid, Edimburgo. Ogni volta con tutti i Capricci. Concludendo questa incredibile esperienza a Napoli. E ricordo come cambiò il violino, durante questo mese intenso di concerti. Perché purtroppo il violino di Paganini, come tutti gli altri violini più preziosi, viene suonato molto poco. Ed è male. Il violino ne ha bisogno. Non è un quadro. Il legno è una cosa viva, intriso di molecole, di vibrazioni. Ora è tornato sotto teca. Ma quel tour intensivo gli restituì un grande carattere.
Ricordo che mi colpiva trovarvi tracce di Paganini, come il segno della mentoniera, più piccola rispetto a quelle di oggi (e la prima l’aveva inventata lui) oppure della spalla che si era mangiata un po’ di vernice, perché ai tempi non si usava la spalliera. Toccarlo era stato ogni volta un’emozione. Ma in quella primissima ne provai una delle più forti della mia vita. Il violino ti restituisce sempre un contatto fisico molto intenso. Non è il pianoforte, dove tocchi i tasti, ma il suono è là, lontano, sulle corde. Qui hai tutto vicinissimo a te, e metti la mano esattamente dove la metteva Paganini, e le tue dita vanno nel punto esatto delle sue. Imbracci, appoggi il mento, senti la stessa vibrazione. Avevo diciassette anni, non lo avrei più dimenticato. 
Invece è cambiato il mio modo di suonare Paganini: i sei Concerti (del sesto feci la prima esecuzione moderna, con la Rai di Milano, diretta da Nino Sanzogno) dopo una prima registrazione per Deutsche Grammophon, con la London Philharmonic e Dutoit, li ripresi da capo con la mia Orchestra da camera italiana. E questa volta per Emi utilizzammo le parti orchestrali originali: Paganini ne era gelosissimo, le metteva sui leggii e poi le ritirava. Sono molto interessanti e decisive, per l’esecuzione, fitte di indicazioni. In particolare agli archi, trattati ora come accompagnamento, ora come ripieno; cioè con un numero diverso di parti, chiamate a suonare con il violino solista: ora “da camera”, dove pochissimi accompagnano, ora come “tutti”. Esattamente come fa Bach, ma anche Mozart. Il ritorno alle tinte originali di Paganini ha portato un colore completamente diverso ai Concerti, valorizzato dai microfoni di Giulio Cesare Ricci. Per la sua etichetta, la Fonè, ho inciso per la terza e ultima volta i Capricci, di cui ho curato per Ricordi l’edizione critica, partendo dai manoscritti. Che sono un vero gioiello di perfezione, perché Paganini – come Mozart, come Bach – scriveva senza ripensamenti, senza correzioni. Subito in bella.