La Stampa, 17 maggio 2020
Biografia di Zadie Smith
La cosa che ti colpisce immediatamente di Zadie Smith è il carisma. È una donna intelligente e colta, dotata di un talento naturale per la scrittura, ma tutti questi elementi, come anche la folgorante bellezza antica, da principessa nubiana, passano in secondo piano rispetto alla personalità: è una di quelle persone che si impossessano del luogo in cui si trovano, attirando l’attenzione di tutti. L’ho conosciuta insieme a David Foster Wallace, di cui è stata grande amica, nell’anno in cui vennero entrambi a Capri con Jonathan Franzen, Jeffrey Eugenides e Nathan Englander. L’amicizia che li lega tuttora generò un irripetibile clima di spensieratezza, che culminò in una partita a pallanuoto, alla quale parteciparono tutti con entusiasmo. «Mai visti tanti autori in una stessa piscina», commentò Zadie, prima di partecipare alla sfida con un agonismo sorprendente.
Era l’anno dei Mondiali di calcio in Germania, e vedevamo le partite tutti insieme: il più divertito era Foster Wallace, rapito dal tifo caotico degli italiani, il più scientifico Franzen, che esaminava con cura ogni singola azione, i più sportivi Englander e Eugenides, che apprezzavano i momenti di agonismo tifando sempre per squadre opposte, ma la più impetuosa era Zadie, che seguiva con passione le vicende non esaltanti della sua Inghilterra. Fu in quella occasione che mi risultarono chiari due altri elementi della sua personalità: il legame sincero con le proprie radici, e la capacità di non aggravare il piacere con considerazioni intellettuali.
Aveva solo 25 anni Zadie quando è diventata una star della letteratura con Denti bianchi, e specie a quell’età è difficile non sentire il peso di quanto il mondo si aspetta da te. Il grande successo, ribadito con i libri successivi, non ha cambiato questo aspetto della sua personalità: Zadie è consapevole del suo talento, della sua popolarità e del suo ruolo pubblico, ma è riuscita a preservare una significativa autonomia rispetto a ogni tipo di pressione, in modo di potere perseguire in libertà quello che ama. Molto si deve alla solida struttura della famiglia, composta dal marito, il poeta Nick Laird, e dai due figli Harvey e Katherine, chiamata così in onore di Katharine Hepburn, la sua attrice preferita.
Qualche anno fa le chiesi di parlarmi dei film che avevano segnato la sua vita e mi colpì l’interesse sincero che manifestò nei confronti del mezzo cinematografico, e la volontà di analizzare la specificità di un altro linguaggio. Mi disse che non si considerava una cinefila né tantomeno un’esperta, e volle partire da due film che non sopporta: L’anno scorso a Marienbad e La moglie dell’aviatore di Eric Rohmer. Quando le feci notare che erano entrambi francesi mi disse che era un caso, ma poi spiegò che non digeriva «l’intellettualismo» del primo, mentre sul secondo spese qualche parola in più: «Nulla, ma letteralmente nulla, mi interessa meno delle vite romantiche della media borghesia parigina». Una dichiarazione rinforzata da quello che disse in seguito: «Per me l’essenza del cinema è azione e piacere, e detesto i film che rifiutano perversamente questi principi».
Ero ammirato da tanta libertà intellettuale, ma a quel punto Zadie mi spiazzò dichiarando che uno dei suoi film preferiti di tutti i tempi era L’eclisse di Michelangelo Antonioni: «Ti stupirà forse dopo quello che ho appena detto, ma devo riconoscere che quel film ha cambiato il modo in cui ragionavo rispetto alla narrazione. Inoltre sono estasiata dalla bellezza del volto di Monica Vitti: ecco, quella è una cosa che può dare solo il cinema». Prima di dirmi gli altri titoli attese un attimo, poi aggiunse: «Un simile sconvolgimento sul piano della narrazione l’ho provato quando ho visto per la prima volta Pulp Fiction, in quel caso accompagnato dal divertimento allo stato puro, ma se devo dirti quali sono i film del cuore partirei da Brian di Nazareth dei Monty Python, Taxi Driver e poi Scandalo a Filadelfia: in quel film sono attratta irresistibilmente dalla Hepburn, volitiva, contraddittoria, intelligente, rompiscatole, illusa e coraggiosa. E ti faccio una confessione: ho una cotta per James Stewart, ha rappresentato la mia prima idea di uomo attraente, e la sua silhouette ha ossessionato la mia vita romantica».
È importante ricordare a questo punto il suo retroterra culturale: Zadie nasce con il nome di Sadie Adeline Smith a Brent, nel Nor-Ovest di Londra, come testimonia il titolo del suo romanzo NW. Il padre, l’inglese Harvey Smith, era trenta anni più anziano della madre Yvonne, la quale era emigrata dalla Giamaica pochi anni prima della sua nascita. In Sulla bellezza c’è un passaggio eloquente su come lei si ponga rispetto all’essere il frutto di un matrimonio misto: «Smetti di preoccuparti della tua identità e preoccupati delle persone a cui vuoi bene, le idee che ti interessano, il credo per cui lotti. È un modo di star al mondo duro, complicato e più solitario di quanto tu possa immaginare. Ma devi vivere, e non puoi farlo attraverso slogan, idee morte, stereotipi o bandiere nazionali. Trovare un’identità è facile. È una facile scappatoia».
Il cambio del nome in Zadie avvenne all’epoca del divorzio dei genitori, e la scelta di dedicarsi alla scrittura risale a quando andò a studiare a Cambridge: sino ad allora aveva pensato di diventare una cantante jazz o una ballerina di tip tap. Ci fu un periodo che pensò di diventare giornalista, ma il suo formidabile talento venne notato dai docenti e quindi da agenti e editori. «Il motivo per cui scrivo è per non fare la sonnambula tutta la vita», ha dichiarato, e in un saggio ha aggiunto «per sentirmi meno sola, ed entrare in contatto con la mia coscienza e non solo con me stessa».
La formazione culturale, eclettica ma decisamente solida, è diventata la base per un impegno che si estende alla saggistica e alla critica letteraria. La forza di tutti questi differenti modi di esprimersi è nella sua dolorosa sincerità, come ha dichiarato pubblicamente al Guardian che le chiedeva un decalogo di consigli per uno scrittore. Nel passaggio fondamentale, Zadie scrive: «Di’ la verità attraverso il velo che hai a disposizione, ma dilla. E rassegnati alla tristezza perenne che proviene dal non essere mai soddisfatto». È un’affermazione illuminante, per una persona che ha posto la creazione artistica al centro della propria esistenza, e che va messa in rapporto con altre, che sembrano sottolineare la fallacia della percezione umana e dei sentimenti: «Ogni avvenimento avviene due volte: dentro e fuori, e sono due strade diverse» sostiene, e in Sulla bellezza ha scritto «la più grande bugia sull’amore è che ti liberi» ma anche «sono davvero molto egoista, ho vissuto per l’amore».
Frequentandola, ti rendi conto che ogni domanda genera in lei altre domande, e che è consapevole che questa ricerca non terminerà mai. Anche su un tema così intimo come quello dell’identità non c’è risposta che sia soddisfacente, e una volta estese il discorso al rapporto tra finzione e realtà: parlando del perché le piaccia così tanto Taxi Driver mi spiegò: «C’è una scena del film in cui De Niro porta a un cinema porno una ragazza bionda di cui è innamorato. Prima di entrare scambia qualche battuta con una cassiera di colore: lui è invaghito della bionda ma nella realtà sposa la donna di colore».