La Lettura, 17 maggio 2020
Intervista al poeta Jericho Brown, vincitore del Pulitzer
Grazie al talento precocissimo di Langston Hughes l’America degli anni Venti approfondì la conoscenza del «nuovo nero», un cittadino consapevole della propria identità e pronto a combattere per difenderla. La poesia di Hughes, uno dei grandi dell’Harlem Renaissance letterario insieme con Zora Neale Hurston, Jean Toomer e Countee Cullen, denuncia la condizione di un popolo libero dalla schiavitù ma oppresso da nuove forme di segregazione razziale.
Per la poesia americana del primo Novecento – nata dal patto del 1913 tra Ezra Pound e Walt Whitman per superare la frattura tra Ottocento e modernismo – si trattava di piantare i semi da cui sarebbero fiorite le generazioni successive. Senza la lezione del Rinascimento nero di Harlem non avremmo le voci di James Baldwin, Toni Morrison, Maya Angelou, Alice Walker, Claudia Rankine. Questa eredità viene raccolta oggi da Jericho Brown (1976), il poeta di Shreveport, Louisiana, che si è presentato al mondo il 4 maggio con un Pulitzer. Brown è stato premiato per The Tradition (Copper Canyon Press, 2019), terza raccolta dopo Please (New Issues, 2008), vincitore dell’American Book Award, e The New Testament (Copper Canyon Press, 2014). In The Tradition, Brown combina la struttura metrica del sonetto con quella del componimento monorima ghazal della tradizione araba e i ritmi della musica blues – una forma sperimentale che chiama duplex.
Jericho Brown vive ad Atlanta, Georgia. Qui dirige il Programma di scrittura creativa della Emory University. In Georgia, alla periferia di Brunswick, il 23 febbraio è stato ucciso Ahmaud Arbery, 25 anni, afroamericano. Arbery è stato assalito mentre faceva jogging da Gregory McMichael, 64 anni, e dal figlio Travis, 34, due uomini bianchi che lo hanno seguito a bordo di un pick-up. Lo avevano scambiato per un ladro a cui imputavano alcune rapine avvenute nel quartiere. Il video della sparatoria racconta un dramma già visto tante volte: quei 36 secondi mostrano un duro confronto fisico tra Travis McMichael e Ahmaud Arbery, seguito da tre colpi di arma da fuoco. Il corpo del ragazzo cade a terra senza vita mentre cerca di allontanarsi. Il 7 maggio, due giorni dopo la pubblicazione del video, padre e figlio sono stati arrestati con l’accusa di omicidio e assalto aggravato. L’8 maggio Ahmaud Arbery avrebbe compiuto 26 anni.
Il linciaggio di Arbery riporta alla mente quello di Emmett Till (Mississippi, 1955) e i casi più recenti di Trayvon Martin (Florida, 2012), Eric Garner (New York, 2014), Michael Brown (Missouri, 2014), Philando Castile (Minnesota, 2016), spesso vittime della violenza della polizia. Alcuni di questi nomi sono impressi nei versi di Brown, per ricordarci che i fantasmi dell’America non passano. «La Lettura» ha raggiunto Jericho Brown al telefono tre giorni dopo la vittoria del Pulitzer.
A uno dei suoi eroi letterari è dedicata la poesia «Langston Blue» (2010). Che cosa evoca in lei quel nome?
«Ho scritto questi versi in nome di Langston Hughes, con la voce di Langston Hughes. Le sue opere sono apparse all’epoca delle leggi Jim Crow, negli anni crudeli dei linciaggi degli afroamericani. La sua poesia è una testimonianza di che cosa significhi vivere da discendenti degli schiavi in America. Ho immaginato questo grande poeta mentre alza le braccia al cielo, arrabbiato, sconfitto: non sa spiegarsi perché, dopo secoli di odio e di violenza, la sua gente non trovi ancora pace. Oggi c’è tanto da fare sul piano dei diritti civili, ma se guardiamo alla storia nel suo insieme c’è spazio per la speranza. Se fossi nato prima del 1865 io stesso sarei uno schiavo».
Come descriverebbe la sua produzione poetica?
«È una domanda che evito spesso: vorrei che il lettore riuscisse a trovare nei miei versi qualcosa di personale, senza dover guidare le sue emozioni. Detto questo, sono un poeta che ricorre a un linguaggio diretto. Mi sento un poeta di dichiarazioni, di sentenze. Salto da un argomento all’altro, metto in dialogo esperienze all’apparenza lontane. Per me è un modo di seguire il percorso che compiono i pensieri. Voglio che il lettore segua questo filo nascosto, voglio vedere fin dove può arrivare la sua immaginazione. Scrivo per dire la verità, nel modo più chiaro possibile. So che sto facendo un buon lavoro quando comincio ad avere paura di me stesso. Ho paura perché quello che leggo sulla pagina è esattamente ciò che provo».
Per la critica lei è un «poeta del corpo». Si riconosce in questa definizione?
«I grandi cambiamenti si rivelano innanzitutto attraverso il corpo. Il dolore è il segnale che non ci stiamo prendendo abbastanza cura di noi. Quando ci innamoriamo abbiamo la sensazione che ogni cosa accada tra due corpi, persino quando siamo lontani dalla persona amata. Ci sembra di toccare l’invisibile. Le lacrime, per esempio, sono anche una manifestazione della bellezza che abbiamo sperimentato e di cui il corpo ci rende consapevoli. Nella mia poesia il corpo è un veicolo per esprimere emozioni potenti».
E poi c’è il corpo martoriato dall’odio e dalla violenza: Emmett Till, Eric Garner, Mike Brown...
«La poesia agisce come un detonatore quando sei sopraffatto dal dolore, sia personale che collettivo. Volevo onorare le vite di quei ragazzi, di quegli uomini, uccisi dall’odio. Per farlo ho inciso i loro nomi nei miei versi. Ma la poesia da sola non può fare giustizia. Scriverei di tutt’altro se potessi avere indietro le loro vite. Vorrei non conoscere il nome di Emmett Till, vorrei non sapere dell’esistenza di Emmett Till. Ogni poesia è politica. Il giorno in cui cesserà di esserlo vorrà dire che avremo avuto giustizia».
La poesia può essere una risposta all’odio sociale rivitalizzato dall’amministrazione Trump?
«L’epoca di Trump è anche l’epoca di crudeli dittature contemporanee. Quando vivi in un clima di oppressione la poesia può essere un antidoto all’indifferenza. Chi ti opprime lavora nel profondo della tua anima per renderti insensibile. Negli Stati Uniti siamo abituati all’orrore in tv, ai linciaggi moderni, alle sparatorie nelle scuole e nelle strade. Ci siamo abituati alla normalità di queste immagini. La poesia ci ricorda che siamo ancora capaci di provare emozioni. La poesia non ti aiuta a sopravvivere ma a farti sentire vivo, a sbocciare attraverso la tua bellezza interiore».
I Pulitzer di quest’anno hanno premiato il talento di autori e giornalisti afroamericani, come Colson Whitehead e Nikole Hannah-Jones del «New York Times», l’anima del progetto «1619» sulla schiavitù. Vede un messaggio dietro queste scelte?
«Se c’è un messaggio, politico o sociale, non credo sia deliberato. Ci sono sempre stati autori neri di talento. Il problema è che non avevamo i mezzi per accorgercene. A scuola leggevamo soprattutto scrittori bianchi. Il nostro unico presidente nero, Barack Obama, è stato eletto nel 2008, ma questo non vuol dire che prima di lui nessun altro afroamericano potesse ambire a quel ruolo. Semplicemente non ne aveva la possibilità. Oggi sappiamo che cosa accade quando ci viene data una possibilità».
Si aspettava di vincere il Pulitzer per la poesia?
«Ho pianto, ho urlato di gioia quando ho saputo della vittoria. Ero sorpreso. Nessuno viene avvisato in anticipo, sono le regole dei Pulitzer. L’ho scoperto su internet, dalla diretta streaming. È un premio speciale per me: quest’anno ricorre il settantesimo anniversario della vittoria di Gwendolyn Brooks, la prima autrice afroamericana a conquistare il Pulitzer. Sono orgoglioso di seguire le orme di questa grande poetessa».
Da dove nasce la sua poesia?
«Dalle voci sublimi di Langston Hughes e di Gwendolyn Brooks, dalla lettura di Lucille Clifton e di Walt Whitman, di cui amo Song of Myself. I libri di poesia erano più accessibili per me, più immediati rispetto alla prosa. Whitman mi ha dato la possibilità di parlare del mio corpo e del Dio che è in me. Di essere un poeta dell’eros. Sono cresciuto nella chiesa nera del Sud, dove per esprimere l’amore per Dio si cantava, si ballava, si rideva. Scrivo per ricordare ciò che ho vissuto».