La Lettura, 17 maggio 2020
Biografia di Michael Najjar che andrà in orbita
A chi appartengono il cielo, le stelle, la Luna, l’universo? Dipende. «Che fai tu, luna, in ciel?», si interrogava Giacomo Leopardi. Allora, la Luna era ancora di tutti: anche chiusi nella propria stanza, era possibile immaginare una volta celeste in cui ogni persona poteva trovare senso di libertà, oppure oppressione, comunque un riflesso del proprio stato d’animo. Oggi la stessa domanda può assumere contorni diversi. Scientifici, ovvio. Ma anche artistici. Come racconta – con la sua opera fotografica Outer space, con la sua ambizione visionaria e anche in questa intervista – il tedesco Michael Najjar, il primo artista che partirà presto (a meno che le difficoltà economiche legate alla pandemia non frenino i piani di turismo cosmico) con Virgin Galactic di Richard Branson.
Nato nel 1966 a Landau, nella Renania-Palatinato in Germania, Najjar divenne famoso nel 1997 per la serie ¡Viva Fidel! A journey into absurdity, un documentario fotografico di Cuba. I ritratti in digitale sono ritoccati al computer da Najjar in modo da riuscire a intercettare solo in un secondo tempo la deformità, quasi come in alcuni dipinti di Salvador Dalí. Questo pone lo spettatore di fronte alla domanda su quale sia il ruolo del reportage fotografico nell’era delle immagini digitali quando, peraltro, come scriveva Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri, la foto è comunque sempre una scelta fatta dall’occhio di chi vede e scatta.
La tragica epidemia di Covid-19 ha rallentato i tempi per Najjar, già in stand by dal 2014 quando la SpaceShipTwo di Virgin Galactic – la navetta progettata per il turismo spaziale – è precipitata durante il volo di prova nel deserto del Mojave, in California, causando la morte di uno dei due piloti. A «la Lettura», Najjar racconta come sta vivendo l’attesa. «Cerco di mantenermi nella migliore condizione fisica possibile – dice – anche se non sto conducendo l’allenamento specifico per il volo. In ogni caso ho già sperimentato la camminata subacquea indossando una tuta da astronauta di oltre cento chili, l’Halo (High Altitude Low Opening); mi sono lanciato con il paracadute da un aereo a diecimila metri di altitudine; ho raggiunto i 300 chilometri orari nella discesa; ho volato su un Mig 29 russo a una velocità più che doppia rispetto a quella del suono. Questa preparazione sarà ripetuta in prossimità del mio volo, che prevedo possa essere nel 2021».
Nel corso di questi anni, c’è mai stato qualcosa che le ha fatto cambiare idea?
«No. Il viaggio nello spazio è un argomento inesplorato su cui sto lavorando molto come artista. Il mio volo nello spazio è solo una parte, molto importante ovviamente, di questa ricerca. Credo sia fondamentale per un artista avere l’opportunità di vedere la Terra da un’altra prospettiva, un fatto che sta diventando realtà nel corso di una sola generazione grazie ai voli per futuri turisti spaziali. Ciò che l’uomo ha realizzato per conoscere lo spazio ha un ruolo sempre più importante nelle nostre vite: credo che vada raccontato, perché avrà un impatto sul nostro futuro».
Che cosa le dà ispirazione?
«La mia fonte principale è la letteratura, come nell’opera Ascension. Sono partito dal romanzo Le fontane del Paradiso di Arthur C. Clarke, l’autore di 2001: Odissea nello Spazio, a cui Stanley Kubrick si è ispirato per il famoso film. Nel romanzo si parla di un ascensore che, dalla cima di una montagna altissima vicina all’Equatore, arriva fino allo spazio. È un’idea lontana, affascinante, utopica, che oggi sta diventando realtà: l’azienda giapponese Obayashi Corporation ha presentato da poco un progetto per costruirne uno entro il 2050 con un cavo in fibra di carbonio. Nella mia opera si vede solo questo, non la base né la cabina dell’ascensore. Il cavo divide l’immagine in due parti, come in un quadro di Barnett Newman, e lascia allo spettatore la possibilità di immaginare dove potrebbe essere l’ascensore».
Qual è il suo pittore preferito?
«Caspar David Friedrich. La sua opera ha un forte ascendente sul mio lavoro, soprattutto per il modo di costruire la realtà. Non ritrae paesaggi reali, solo immaginazioni della mente. Analogamente, nelle mie foto i paesaggi sono post-naturali, iper-realistici: il paesaggio romantico di Friedrich evolve verso un altro segnato dalle attività tecnologiche dell’uomo».
Ci sono ipotesi di colonizzazione del sistema solare. Che cosa ne pensa?
«L’evoluzione esponenziale della tecnologia ci porta lì: sono convinto che lo faremo, anche se oggi sembra inimmaginabile. Non sarà certo possibile colonizzare Marte nell’arco della nostra vita ed è controverso il fatto che, per abitare su questo pianeta, si voglia riprodurre quello che sta distruggendo il nostro, cioè sciogliere i ghiacci ai poli e produrre gas serra».
È proprio quello che stiamo facendo: danneggiamo il nostro pianeta per inseguirne un altro...
«Una delle mie opere più recenti, Starlink, pone l’attenzione sul radicale cambiamento dei nostri cieli notturni dovuti al progetto di SpaceX, l’azienda di Elon Musk, di lanciare almeno 42 mila satelliti nei prossimi anni, con l’obiettivo di migliorare i collegamenti internet del pianeta. Lo stesso stanno facendo altre aziende. La foto Starlink è stata scattata nel 2019 al Blanco Tolodo Telescope nel deserto di Atacama in Cile. Se i satelliti verranno lanciati, saranno fonte di grossi ostacoli per gli scienziati, che qui fanno ricerca, a causa dell’inquinamento luminoso e noi non vedremo più il cielo stellato a cui siamo abituati. In realtà stiamo assistendo alla massiva privatizzazione del nostro cielo: il cielo, le stelle, appartengono a tutta l’umanità».