La Lettura, 17 maggio 2020
Il Campo 87 di Milano
Qualcuno è morto più solo degli altri e ora è sepolto in questo rettangolo di terra smossa ai margini della città – strade a scorrimento veloce, blocchi di condomini recenti, un bizzarro, ultimo pastore che guida le sue capre sui prati attorno alle mura. È successo tutto in fretta, a marzo, il mese peggiore di questa strage, quando le bare si accumulavano nelle palestre, la burocrazia faticava a smaltire le pratiche e serviva una soluzione decente ma rapida per i corpi, tanti, di cui si tardava a rintracciare origini e parenti.
Al Cimitero Maggiore di Milano, quartiere Musocco, che ancora dispone di ettari sottratti all’antico Bosco della Merlata, era disponibile un intero «Campo», segnato con il numero 87. «È nato per necessità», spiega Roberta Cocco, assessore milanese con la penosa delega ai Servizi funebri in epoca di coronavirus. Il crematorio cittadino era arrivato al limite, per ragioni sanitarie un’ordinanza restringeva i tempi di attesa delle salme a cinque giorni. «Abbiamo allora deciso di dedicare questo spazio alla sepoltura dignitosa di coloro che non avevano familiari che potessero dare disposizioni».
La prima inumazione il 13 marzo, l’ultima qualche giorno fa; 119 croci bianche con la punta piantata in corrispondenza della bara, buche già scavate per le prossime inumazioni. Molti anziani, nomi di una città che non c’è più, Vilma, Prospero... O anche di un Mezzogiorno che forse esiste ancora e che arrivava con le sue migliori energie negli anni del boom: Carmine, Domenico, un’Affortunata per scherzo del destino seppellita sotto la croce 17.
Rosa Cattaneo era nata a Milano ottant’anni fa, e di quella milanesità démodé aveva il garbo – raccontano —, il buon gusto, l’estrema riservatezza. Una tenace autonomia che l’aveva portata a vivere da sola, all’ottavo piano di un condominio grigio e blu, una bella via alberata in zona Bande Nere. I dirimpettai le erano affezionati, una signora «molto carina e benvoluta», dicono. Informata, attenta, capace di usare senza impacci internet e una casella di posta elettronica, era rimasta sempre in casa da quando era esploso il virus, «le facevamo noi la spesa e gliela lasciavamo sull’uscio».
Una mattina, però, un ex collega la chiama al telefono, Rosa non risponde e l’uomo giustamente s’allarma. Persona cara, avevano lavorato assieme per una piccola casa editrice di libri d’arte poi fallita. Erano rimasti legati, lui le faceva volentieri d’autista – Cattaneo era senza patente – per le piccole commissioni, le compere, quel che serviva. Avvisati dall’uomo, i vicini entrano in casa e trovano Rosa a terra, confusa e spaventata. Pensano al diabete – «Mi sono curata male in questi tempi», si giustifica —, non ha la febbre, sembra respirare bene, la aiutano a rialzarsi. Valutano assieme a lei l’ipotesi di prendere una badante, Cattaneo si attiva e chiede a un’agenzia per l’assistenza agli anziani di inviarle un’email.
Intanto non si scoraggia, trascorre il tempo leggendo, per ultimo un libro recente di Isabel Allende che le piace: promette di passarlo alla vicina quando l’avrà terminato. Ha una casa bella, Rosa, curata, e piena di libri, molte curiosità. Per anni è stata la migliore amica della professoressa Sozzi, una delle prime donne a insegnare in un liceo milanese, morta a cent’anni nel 2016.
Sabato pomeriggio, 21 marzo, Rosa è a letto e la vicina che le siede accanto, protetta da una mascherina, nota un’insolita perdita di lucidità, frasi sconnesse, si preoccupa, pensa a un ictus e chiama l’ambulanza. Al San Giuseppe la signora arriva in realtà già gravissima, con una saturazione pessima e «i polmoni bianchi», come dicono i medici, per mancanza d’ossigeno. Lunedì, 23 marzo, alle 18.10 Rosa Cattaneo muore, senza parenti, nè amici stretti, e l’unica persona che l’ospedale riesca a rintracciare è di nuovo la vicina.
Il suo appartamento è ancora chiuso da quando è stata portata via, le piante del terrazzo saranno ripiantate nel piccolo giardino condominiale in suo ricordo, le persone che l’hanno conosciuta e apprezzata si ripromettono adesso di farle visita al Campo 87, croce numero 70.
La troveranno accanto alla gente più diversa per storie e provenienza, sotto cumuli di terra incolta segnati da queste ics bianche marcate da un pennarello nero. Ronzio lontano di tagliaerba e scavatrici, più vicino una bolla di silenzio in cui si avverte anche il sibilo del nastro rosso e bianco di protezione agitato dal vento. Il più giovane di questi «caduti» aveva 48 anni, si chiamava Egbert, veniva dalle Filippine, e senza fissa dimora passava le notti al dormitorio di viale Ortles intitolato a Enzo Jannacci.
Di Roberto, Rehim e Mohammed si conoscono a stento i nomi, le età (rispettivamente 64, 54 e 61) e il domicilio che corrispondeva per tutti e tre a una casa d’accoglienza. Tra la dozzina di stranieri c’è Armando, trans peruviana di 58 anni, uccisa dal Covid e dall’Aids assieme. Una compagna l’ha assistita fino al ricovero, ma non ha avuto i soldi per pagarle una diversa sepoltura. È successo così anche a Giancarlo, 85 anni. Aveva due nipoti che sono stati rintracciati dall’ospedale in cui è morto. Ma non potevano affrontare la spesa per le pompe funebri, e nemmeno recuperare i pochi averi: l’alloggio popolare dello zio in zona Corvetto era già stato abusivamente occupato da estranei.
In molti casi nessuno ha reclamato i corpi e nemmeno le cose: vestiti, orologi, scarpe ma anche tablet, orecchini, carte d’identità, rimaste accatastate nei nosocomi.
Una donna, foulard in testa, versa acqua sul numero 85, come se innaffiasse queste zolle impastate di calcinacci e pietre, s’inginocchia, recita. Qui giace Secerie Pasal, 63 anni, sua madre. Romena di Istanbul – la figlia mostra la fotocopia di un documento – morta di infarto, sostiene. Troppo povera per essere trasportata in Turchia dove è sepolto il marito. «Ventimila euro ci hanno chiesto», dice arrabbiato uno dei due baffuti gemelli, anche loro qui sulla tomba della mamma. Non è un caso di morte solitaria bensì di indigenza, anche questo a carico del Comune. Ma l’uomo è agitato perché sono musulmani e si ritrovano a pregare una croce. Qualcuno fa notare che il corpo è rivolto verso Est, il simbolo è provvisorio e si può cambiare, e poi ancora la mamma tra due anni potrà essere riesumata e trasferita dove preferiscono. Vanno via più sereni.
Non sarà l’unico caso di familiari che apprendono dopo la sepoltura di avere un congiunto al Campo 87. Nella concitazione dei giorni peggiori, per alcuni morti non sono stati rintracciati i parenti. Confinati nelle zone rosse, per esempio, ricoverati in rianimazione, in quarantena, o residenti altrove. Eppure esistono. In alcuni casi sorge il dubbio che non siano stati correttamente informati. D. L., croce 22, preside di scuola in zona Stazione Centrale, che avrebbe compiuto 90 anni quest’estate, ha due figlie e una sorella al Sud. Così, G. P., croce 47, abitava in un bell’appartamento in centro e ha ancora una moglie.
Che cosa succederà in questi casi? Il Comune non fa ricerche, spiega ancora l’assessore, ma mette a disposizione i dati per chi dovesse farne richiesta. Per ragioni sanitarie, l’esumazione sarà possibile solo tra due anni, ma – quanto meno – sarà a spese della città.
Per chi alla fine resterà qui sepolto, con un ceppo di marmo al posto della croce, crescerà l’erba, promettono, e forse addirittura un monumento, una targa, un simbolo per ricordare che nella tragedia del Covid-19 c’è stato uno strazio addirittura peggiore: la solitudine.