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 2020  maggio 17 Domenica calendario

Il mondo dopo secondo Amin Maalouf

Scrivo queste righe nella strana primavera del 2020, mentre ci troviamo di fronte a una delle sfide più traumatiche della storia dell’umanità. Come finirà questa prova? Chi di noi ne sarà vittima, e chi saprà come uscirne indenne? Quali nazioni, istituzioni, dottrine e valori ne usciranno indeboliti e quali rafforzati?
Ci vorrà un po’ di distanza per misurare tutte le conseguenze di ciò che stiamo attraversando. Tuttavia, possiamo già dire senza rischio di errore che gli eventi di quest’anno non saranno dimenticati a breve; che continueremo a parlare di un «prima del 2020» e di un «dopo il 2020» per molto tempo ancora; e che il futuro del pianeta ne sarà profondamente e durevolmente rimodellato. Una delle caratteristiche principali della pandemia causata dal Covid-19 è che essa rappresenta, al di là degli aspetti medici, scientifici o sanitari, una grande sfida per il sistema da cui ogni Paese è governato e per i rapporti tra le varie componenti dell’umanità. Il virus in sé non sembra essere mortale quanto alcuni degli altri virus che abbiamo visto negli ultimi tempi, come ebola o l’Hiv. Possiamo ragionevolmente supporre che presto saranno sviluppate cure efficaci, insieme a un vaccino. La preoccupazione principale è che il coronavirus, che si trasmette facilmente, causa in molti pazienti difficoltà respiratorie che richiedono terapie intensive. E quando non si riesce a rallentare il contagio e non si dispone di attrezzature adeguate in quantità sufficiente, ci toccano scelte impossibili e crudeli: se abbiamo 12 apparecchi respiratori e 30 pazienti sono contemporaneamente in condizioni critiche, chi deve essere tenuto in vita e chi deve morire? A questo dilemma se ne aggiunge un altro, meno struggente ma altrettanto grave: in una fase di rapida diffusione del morbo, le autorità devono costringere le persone a seguire le proprie direttive o dare loro margini di libertà?

I dilemmi vanno ben oltre il campo medico. Ci costringono a porci una domanda più ampia che ossessionerà i nostri pensieri e i nostri dibattiti per molti anni: come dovrebbero funzionare le società umane per fare fronte a sfide di questo genere? L’attuale pandemia rappresenta, in un certo senso, uno stress test per tutti i Paesi del pianeta. Se in futuro dovessimo affrontare altre minacce mortali, causate da conflitti armati, attacchi massicci, incidenti nucleari o disastri climatici, come dovremmo organizzarci per affrontarle? Quali cambiamenti dovremmo apportare al nostro comportamento, alle nostre abitudini, alle relazioni con i nostri simili, vicini e lontani?
Il mondo che uscirà dalla crisi attuale esiste ancora solo in forma embrionale, e sarebbe presuntuoso voler dire ora come potrebbe essere. Ma alcune caratteristiche stanno già emergendo. È probabile, ad esempio, che le abitudini sviluppate durante i mesi di reclusione e di distanziamento sociale non si perdano completamente nel periodo successivo. Sia perché ne saranno emersi dei vantaggi prima non immaginabili sia perché il timore di un ritorno della pandemia, nel proprio Paese o in altre parti del mondo, sarà un incentivo duraturo alla prudenza. Si potrebbero stabilire nuovi standard che cambierebbero per molti di noi il modo in cui lavoriamo, mangiamo, ci prendiamo cura di noi stessi o ci divertiamo; il modo in cui incontriamo e salutiamo gli altri; il modo in cui viaggiamo o non viaggiamo. Potremmo assistere alla nascita di un mondo dove prevale la digitalizzazione, la smaterializzazione e la robotizzazione a oltranza; dove le persone si incontrano sempre più spesso in videoconferenza; dove si evitano il più possibile gli incontri pubblici; e dove si preferiscono prodotti ottenuti senza il contatto con altri esseri umani.
Le conseguenze di una tale evoluzione potrebbero essere allo stesso tempo disastrose e benefiche. Una sostanziale diminuzione dei consumi di massa potrebbe prolungare a tempo indeterminato la crisi economica provocata dalla pandemia, lasciando milioni di lavoratori disoccupati. Ma potrebbe anche ridurre l’inquinamento atmosferico, diminuire lo spreco di risorse naturali, migliorare le prospettive per il futuro del pianeta.
Cambiamenti significativi potrebbero anche verificarsi nel modo in cui le società umane sono governate. L’opinione che ha prevalso dalla fine degli anni Settanta in poi, prima nel Regno Unito e negli Stati Uniti e poi in moltissimi Paesi del mondo, è che il ruolo economico delle autorità pubbliche dovrebbe essere significativamente ridotto, così come il loro ruolo sociale. Basta con lo «stato sociale» che si prendeva cura della popolazione povera per nutrirla, darle una casa o curarla. C’è stato un tentativo di ridurre il ruolo dello Stato anche nel mantenimento dell’ordine pubblico, affidando perfino la guardia carceraria a società private. Questa visione delle cose ha mostrato i suoi limiti in quella che forse si dovrebbe chiamare «la grande paura del 2020». Per alcune settimane, alcuni leader sono stati tentati di rinunciare a cercare di frenare la pandemia, lasciando così che si diffondesse tra la popolazione per acquisire un’immunità collettiva, nota come «immunità di gregge», che li proteggesse da futuri attacchi del virus. Questa teoria del «liberalismo sanitario», che è stata difesa da una parte della comunità scientifica, ricorda la «mano invisibile» di Adam Smith, ed è comprensibile che i sostenitori del liberalismo economico abbiano pensato di adottarla. Non dovremmo, si sono chiesti, lasciare che la natura risolva questo problema da sola, con la sua stessa saggezza, piuttosto che cercare di ostacolare i suoi piani? Non dovremmo continuare a lavorare, produrre e vivere come prima, semplicemente prendendo qualche precauzione e aspettando che l’epidemia si estingua come ogni anno con l’influenza? Non potremmo sperare, in questo modo, di evitare un crollo economico il cui costo umano finirebbe per essere ancora maggiore di quello della pandemia?
Queste domande – formulate in modo chiaro a Washington, Londra, Stoccolma e Amsterdam, e in modo velato in diverse altre capitali – spiegano le procrastinazioni del presidente Donald Trump, che inizialmente aveva cercato di minimizzare il rischio sanitario. Ma questa strada si è rivelata politicamente insostenibile, come lui stesso ha ammesso candidamente in una conferenza stampa alla Casa Bianca il 31 marzo: quando gli esperti lo hanno avvertito che se l’epidemia fosse stata lasciata a sé stessa ci sarebbero potuti essere più di due milioni di morti negli Usa in poche settimane, ha dovuto rinunciare a un’opzione rischiosa e sostenere il lockdowndei suoi elettori.
Ciò significa che questa crisi è la campana a morto della rivoluzione conservatrice che prospera da una quarantina d’anni? È troppo presto per dirlo con certezza, ma è vero che la crisi sanitaria rende molto meno credibile la visione del mondo sostenuta dai fautori del liberalismo economico, che è stata, peraltro, sempre più contestata negli ultimi anni. Le manifestazioni per denunciare le carenze di un sistema che amplificava le disuguaglianze, impoveriva le classi medie e incrementava il numero dei «dimenticati» si sono moltiplicate in varie regioni del mondo, dal Cile all’Indonesia, passando per la Francia. Benché abbia assicurato un’innegabile fase di espansione economica globale, il metodo di governo basato sul primato delle leggi di mercato stava già mostrando segni di esaurimento. Si sentiva la necessità di correggerlo per temperarlo e umanizzarlo. La tragedia del 2020 ha dimostrato che le conseguenze di una dottrina applicata troppo rigidamente, troppo ciecamente, possono rivelarsi mostruose. Soprattutto nel campo della salute. A causa dei tagli di bilancio in questo campo non produttivo ma vitale, che ha portato a una sostanziale riduzione delle attrezzature mediche, abbiamo finito per provocare un grande cataclisma e compromettere seriamente la legittimità morale del liberalismo economico. È ragionevole supporre che, al contrario, il ruolo dello Stato come protettore dei suoi cittadini abbia improvvisamente ritrovato una legittimità che sembrava avere perso. Non si può più ironizzare sullo «Stato balia» dopo la crisi sanitaria, come si faceva prima. Tanto più che le autorità pubbliche avranno inevitabilmente un ruolo importante da svolgere nel rilanciare la macchina economica che la pandemia ha travolto.
Dopo il crollo attuale, come dopo quello del 1929, sarà inevitabilmente necessario concepire un new deal su vastissima scala che solo le autorità governative avranno i mezzi per finanziare e gestire. Ma non sono solo i sostenitori del liberalismo economico ad avere visto la loro credibilità minata dalla grande paura del 2020. È l’Occidente nel suo insieme che da questa messa alla prova sta uscendo ammaccato, malconcio, screditato. Perché non ha dimostrato né leadership morale né efficienza tecnica. In un momento in cui l’intera umanità si sentiva minacciata e cercava disperatamente rassicurazione, conforto, sostegno e guida né gli Usa né l’Europa erano all’altezza del compito. Sembravano sopraffatti e sconvolti. L’Occidente, che per secoli ha avuto un ruolo di primo piano, sarà sostituito da altri attori, del Sud e dell’Est, come abbiamo sentito sempre più spesso dall’inizio di questa crisi? Non credo. Ciò a cui assistiamo è la dissoluzione di qualsiasi ordine mondiale degno di questo nome.

Lo scenario più plausibile non è quello della sostituzione di un grande potere con un altro, come se un nuovo sovrano si sedesse sul trono che il suo predecessore ha lasciato. Piuttosto, ci si dovrebbe aspettare un lungo e tumultuoso «interregno», pieno di conflitti di ogni tipo, prima che si possa trovare un nuovo equilibrio. Uno degli spettacoli più scoraggianti è questa marea di accuse e insulti scambiati da una parte all’altra dell’Atlantico e anche all’interno dell’Europa e degli Stati Uniti. Alleati e partner si sono reciprocamente trattati da «pirati moderni», «profittatori sfacciati», «gangster» e «ladri». Abbiamo appreso che un carico destinato ai malati di un Paese europeo era stato sequestrato e dirottato verso i malati di un altro Paese europeo. Una richiesta urgente di mascherine e respiratori da parte di uno Stato in difficoltà era stata rifiutata dai suoi vicini più vicini. E a un produttore americano è stato impedito di onorare un contratto debitamente firmato per la fornitura di apparecchiature mediche a un Paese europeo; dopo aver espresso il suo disaccordo, è stato accusato di antipatriottismo e quasi alto tradimento per non aver dato priorità ai suoi concittadini.
Quanto siamo lontani dall’Europa dei padri fondatori e dall’America del Piano Marshall! È vero che le pandemie hanno sempre spinto i nostri simili all’isolamento piuttosto che all’apertura. Chiudiamoci in casa, chiudiamo i nostri confini, erigiamo barriere tutt’intorno a noi, letteralmente e figurativamente. E siamo sospettosi verso tutti coloro che vengono da un’altra parte, da un altro Paese, da un’altra provincia, perfino da un’altra città. Si tratta di una reazione difensiva perfettamente comprensibile quando ci si percepisce in pericolo di vita.
Resta da vedere se torneremo a comportamenti normali non appena la crisi si sarà placata e la grande paura sarà rifluita. Lo spero con tutto il cuore ma non ne sono sicuro. Perché questa nuova diffidenza arriva, ahimè, su un terreno estremamente fertile per farla prosperare. In Europa, le manifestazioni di egoismo che abbiamo visto dall’inizio della crisi sono arrivate in un momento in cui il sogno unitario era già seriamente infranto e in cui avevamo già bisogno di una spettacolare dimostrazione di fratellanza per ripararlo. Il modo in cui è stata gestita la crisi sanitaria non contribuirà ad alleviare la diffidenza tra i popoli del continente. E lo stesso si potrebbe certamente dire a livello globale. Le già tese relazioni tra americani, cinesi, russi, europei e iraniani hanno portato ad aspri scambi sulla responsabilità reciproca per quanto è appena accaduto. Le voci più velenose fioriscono sui social network... Anche in questo caso, la diffidenza non svanirà presto.

In un mondo in cui da decenni imperversano le spirali identitarie più aggressive e cariche d’odio, la grande paura del 2020 e la crisi economica che ne seguirà difficilmente porteranno a una maggiore benevolenza e alla solidarietà reciproca.
Lo stesso vorrei dire in merito alle misure di emergenza che sono state adottate per affrontare la pandemia, che spesso violano gravemente sia le libertà pubbliche che la privacy. In circostanze normali, sarebbero state solo un intermezzo temporaneo, e non appena la crisi fosse finita, come alla fine di una guerra, saremmo tornati alle normali pratiche di uno Stato di diritto. Ma in un mondo in cui la lotta al terrorismo ci ha già convinto che la protezione dei cittadini deve essere prioritaria anche se a scapito delle libertà pubbliche e della privacy, in un mondo in cui ogni gesto, parola, movimento e ogni transazione possono già essere controllati, le misure di emergenza rischiano di prendere piede definitivamente e di diventare una cosa scontata. Soprattutto se la pandemia minaccia di tornare stagionalmente nei prossimi anni. È probabile che non molti nostri contemporanei vi si opporranno.
Una delle primissime lezioni della crisi è che i poteri autoritari, direttivi, paternalistici, quelli che praticano il più rigoroso controllo sociale, sembrano essere i più capaci di affrontare il pericolo con rapidità ed efficienza. Anche da questo punto di vista, l’immagine poco attraente delle democrazie occidentali durante la pandemia rischia di avere un impatto negativo sulla democrazia stessa.
Queste prospettive che sto delineando non sono rassicuranti, lo so. Ma poiché rappresentano sviluppi plausibili, e persino probabili, non posso fare a meno di menzionarle. Lo scrittore è un guardiano; quando la casa è in fiamme, il suo compito è quello di svegliare gli abitanti, non lasciarli dormire e augurare loro sogni d’oro. Io comunque rifiuto la disperazione, lo scoraggiamento e la rassegnazione. Rimango convinto che una reazione è possibile, e mi sembra che quello che è appena successo ci aiuterà a prenderne coscienza, e ad agire. Molti nostri contemporanei sentivano, prima della crisi, che il mondo aveva seri problemi. Ma era un’impressione confusa, nebbiosa, incerta, che non riuscivamo a capire a cosa potesse portare concretamente. Forse ciò che ci mancava fin qui era la consapevolezza del pericolo imminente. Ora la consapevolezza è arrivata. Onnipresente, indelebile, ossessionante. Nessuno a bordo del bastimento degli uomini può ignorare che sulla nostra rotta ci sono iceberg: dovremo evitarli a tutti i costi.
(traduzione di Anna Maria Lorusso)