Corriere della Sera, 17 maggio 2020
A 10 anni dalla morte di Edoardo Sanguineti
Il critico Fausto Curi racconta che nell’estate del 1966, durante una pausa del quarto convegno del Gruppo 63, un drappello di critici e scrittori si spostò su una spiaggetta di Porto Venere per fare un bagno. Quando videro avvicinarsi, uno accanto all’altro, Edoardo Sanguineti ed Enrico Filippini, magrissimi e coperti da minuscoli slip, rimasero esterrefatti: per quella magrezza che Curi definisce talmente incredibile e agghiacciante da farli sembrare due prigionieri appena usciti da Auschwitz. L’aneddoto è raccontato in un recente libro che raccoglie gli atti di un convegno dedicato a Filippini a 30 anni dalla morte (a cura di Massimo Danzi, Mimesis editore). In effetti la stupefazione di fronte a quei due protagonisti della neoavanguardia stava anche nella loro secchezza beckettiana. Non risulta che Sanguineti abbia mai scritto con entusiasmo su Beckett ma se qualcosa li accomunava, oltre ai fisici lievemente scheletrici, era l’interesse per la danza. Anzi, Sanguineti riteneva che la musica fosse la sua vera vocazione e pensò pure da ragazzo di poter diventare un ballerino. Il suo sogno, confessato nel Questionario di Proust, era avere l’agilità del danzatore.
Venuta meno la danza per presunte ragioni di salute, rimase in lui l’idea di elaborare con la parola l’equivalente di una scrittura musicale, il che lo avrebbe poi portato a stringere rapporti sempre più frequenti con musicisti come Luciano Berio, essendo coetaneo della Scuola di Darmstadt, rappresentata oltre che dallo stesso Berio e da Maderna, da Stockhausen e Boulez. In effetti, la poesia di Sanguineti è il risultato anche della sua particolare vocazione musicale e della passione artistica: raccontò a Fabio Gambaro che commentando le prime poesie, pubblicate su rivista, fece riferimento all’astrattismo e alla dodecafonia e accompagnò i testi con immagini di Klee e di Kandinskij (ma avrebbero potuto essere quelle di Pollock). Il lettore era gentilmente invitato a non cercare né una melodia né un significato nelle poesie. Del resto, diceva: «Ogni comunicazione umana anche non verbale ha sempre un contenuto ideologico: non c’è che politica a questo mondo, nel senso complesso della parola». Che lo voglia o no, secondo Sanguineti ogni scrittore è militante, a maggior ragione quando le sue parole sfidano il linguaggio comune fino a deprivarlo di senso: rimase fedele all’idea che bisognava cominciare dal linguaggio a distruggere il capitalismo che domina il mondo senza più essere in grado di reggerlo e governarlo (come disse in un’intervista del 2003). Il suo radicalismo lo portò a sposare per sempre l’avanguardia come tensione anarchica, «rivolta contro lo stato presente della cultura, della società, della storia».
Per chi non sa nulla della poetica di Sanguineti né di quella dei cosiddetti «Novissimi» e del Gruppo 63, potrebbe essere utile almeno questo incipit lunghissimo: «in te dormiva come un fibroma asciutto, come una magra tenia, un sogno». Era il verso con cui si apriva una famosa poesia dedicata al figlio Federico, nato nel 1955 (e oggi illustre filologo dantista), e rivolto alla moglie Luciana incinta (è lei il tu a cui il poeta si rivolge). L’imperativo era quello di raggelare la materia e di tenere lontano dalla poesia ogni sentimentalismo patetico: il feto, «in quel tuo sacco di membrane opache», è definito con un lessico tecnico-scientifico tendente alla patologia. Naturalmente chi l’ha conosciuto sa bene che il Sanguineti uomo era tutt’altro che algido e se qualcuno, ingenuamente, avesse la tentazione di confondere la crudezza del poeta con il suo temperamento umano, legga la lettera del 23 dicembre in cui comunica al suo adorato maestro Giuseppe Ungaretti «una cosa che mi ha reso, come Lei può immaginare, quasi delirante: il 19 ho avuto un figlio, e maschio; si chiamerà Federico». Aggiungendo: «Non Le parlo delle molte, delle troppe emozioni (ho assistito con tanta angoscia e tanta gioia al parto di mia moglie)».
In quel 1955, il venticinquenne Edoardo scriveva da Torino, dove la famiglia si era spostata nel ’33, dove aveva studiato con Giovanni Getto e dove 4 anni prima aveva cominciato a scrivere i versi di Laborintus (prima raccolta poetica che sarebbe uscita nel ’56 grazie a Luciano Anceschi). A Torino città aperta del dopoguerra frequentava, più che i letterati, gli ambienti musicali e artistici, che propiziarono il suo precoce incontro con Enrico Baj, oltre che la conoscenza delle nuove correnti europee. Fatto sta che a 10 anni dalla sua morte, l’esperienza di Sanguineti appare come un unicum impressionante e quasi mostruoso: teorico della neoavanguardia, studioso di Dante e Boccaccio, e gran lettore di Pascoli, Gozzano, Lucini, critico militante per quotidiani e periodici, inventore e direttore di riviste, storico della letteratura e antologista, librettista, scrittore di teatro (la sua riduzione dell’Orlando furioso fu messa in scena da Luca Ronconi), imitatore (di Petronio nel Il giuoco del Satyricon), traduttore (da Euripide, da Seneca, da Joyce…), fautore dell’identità (dialettica) tra ideologia e linguaggio come chiave di ogni orizzonte culturale (dunque depurata dalla «passione» che ci metteva Pasolini, suo obiettivo polemico). Ovviamente poeta e narratore. Ovviamente politico (deputato per il Pci dal 1979 al 1983).
C’è tutto Sanguineti nella risposta ad Andrea Zanzotto, che parlò del suo poema Laborintus come «sincera trascrizione di un esaurimento nervoso». Per la verità, fu l’obiezione, si tratta piuttosto di «un oggettivo “esaurimento” storico». Era il tentativo di superare il ritorno all’ordine (politico e culturale) imposto dal fascismo: «Il ritorno al disordine – scrisse – è la via maestra del ritorno al tragico». In effetti c’è del tragico nell’immagine di quei due amici scheletrici e beckettiani che camminavano sulla spiaggia di Porto Venere.