Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  maggio 16 Sabato calendario

Biografia di Chandra Livia Candiani raccontata da lei stessa

Tutto quello che viene in mente leggendo o ascoltando Chandra Livia Candiani è il timbro, lo stile, la riconoscibilità unica di questa donna che ha trovato nella poesia la fulminea forza delle parole e nel buddismo un modo per camminare nel mondo. Chandra ha origini russe, la madre è di San Pietroburgo, una famiglia che ha girovagato tra Minsk, Parigi e infine Milano. Chandra aveva due sorelle e un fratello. Scomparsi. A una, l’ultima, ha dedicato il suo libro più recente, il bellissimo Il silenzio è cosa viva (Einaudi).
Chandra in sanscrito vuol dire, tra l’altro, luna: «Il nome mi è stato dato in India dal mio primo Maestro, Rajneesh, nell’86. La luna maestra di sparizioni e ritorni, di splendore solitario nel buio. Da un nome ci si sente chiamati, io mi sono sentita riconosciuta in un luogo segreto, sognante, come fosse il bisogno di provenienze lontane che giustificassero il mio senso di estraneità». Ciò che è estraneo alla normalità è consono alla poesia. La forza poetica di Chandra è di essere se stessa. Di non derogare dalla parola vita, che non ammette infingimenti, edulcorazioni, slanci. La vita è. E la poesia deve solo testimoniarla. Ci sentiamo per mail e per telefono. Ho visto delle sue recite poetiche e sono restato incantato da quella voce di bambina.
So che la tua non è stata un’infanzia accogliente. Dove sei nata?
«A Milano. Tutta la prima infanzia si è mossa per scosse, terremoti, esperienze fulminee e tanta, tantissima, inspiegabilità. Per fortuna ho incontrato presto i libri, ho abitato tanto nei libri».
Che valore dai al mondo dell’infanzia?
«Essa non è solo un tempo, è una dimensione. Da piccola guardando gli adulti mi sono promessa di non lasciarla mai. Sono cresciuta, ho sofferto, amato, lavorato, ma dentro è rimasta una fedeltà ai suoi valori, al suo credere in quello che non si vede, alla sua lingua fulminea e irriverente».
Accennavi alla tua famiglia.
«Sono cresciuta in una famiglia folle e aggressiva dove albergavano pazzia, alcolismo, violenza. Ma sono le violenze sottili, i sottotesti, le menzogne che non sopporto. Sono sensibile alla falsità, alle doppie facce, alle cortesie che nascondono prepotenza. Sono costretta all’emarginazione da moltissime forme sociali, perché non reggo la doppiezza e la prepotenza infingarda. Trasparenza e semplicità sono per me necessarie».
Ti ho sentito parlare delle tue difficoltà scolastiche, che cosa non funzionava?
«Tutto, non vedevano assolutamente da quali sofferenze arrivassi, ero una delle peggiori della classe e pensavano che fossi pigra. C’era quella parola terribile allora, "indolente" che marcava la bambina».
Hai cominciato a scrivere poesie a dieci anni, dopo la morte di tuo padre. C’è un legame?
«Può darsi, da tempo quella morte era minacciata e forse il suo farsi reale mi ha sradicato ma anche liberato dalla minaccia. Vivere nelle minacce è come vivere in un mondo sospeso: tutto fa paura e si sbaglia sempre e si può sempre pensare di avere provocato chissà che danni se solo si respira un po’ più forte. La morte, la sparizione ha sempre acceso la mia poesia. La mia prima poesia era in morte di un pesce rosso. La contemplazione del corpo fermo: dove è andato l’essere che conoscevo? Cosa resta? Dov’è ora? Sono domande che quando entrano nella carne trovano solo la poesia che sappia rispondere».
Un tuo libro di poesie si intitola "La bambina pugile", sei tu quella bambina?
«La bambina pugile è la faccia che certe volte vediamo allo specchio appena svegli. Da sempre ho notti di pugilato con le memorie e con la coscienza».
Quando la poesia è giunta cosa ha liberato in te?
«È arrivata come una visita ed è rimasta tale. Viene e va quando le pare, la chiamo e le obbedisco. Mi ha portato il senso del dono impensato. E come ha scritto Paul Celan: "un dono che implica destino". La poesia mi ha dato un destino. E poi solo lei sa dire quanto siamo complessi e frammentati. So quel che sono solo scrivendo».
Che cosa si ama di un poeta o cosa tiene insieme poeti come Rilke e Achmatova?
«Non so cosa amo di un poeta, so cosa amo della poesia che non è di qualcuno ma che riconosco nei poeti che mi fanno fare un soprassalto del pensiero, che mi hanno insegnato che non ci sono solo i saperi divisi, le bravure, le maestrie linguistiche, ma c’è un dire dettato, un’improvvisazione della lingua che ti strappa le parole dalla bocca. Nell’I Ching, il Libro dei Mutamenti, sta scritto: "Quello che è frutto di un lungo lavoro appare alla fine come spontaneo". Cerco questa apparenza semplice frutto di un lungo lavoro. Quello che tiene insieme Rilke e Achmatova è una visione vastissima della poesia, qualcosa che ti strappa dalla sicurezza e dal buon senso. Io la poesia la vivo, questo ho imparato dai miei Maestri. Scriverla viene dopo».
L’hai vissuta anche con i bambini, soprattutto stranieri, insegnando in scuole dell’hinterland milanese.
«Un’esperienza che è iniziata nel 2006. Ho girato tante scuole, quelle periferiche sono per me le più care perché senti la necessità della poesia. E non si tratta solo di uno stile letterario, è un modo per riconoscere che i bambini stranieri hanno dentro un mondo molto più grande delle parole imprestate da poco dalla nuova lingua, lingua che li esclude e li fa molto più piccoli di quello che sono».
In una fase della tua vita hai chiesto aiuto all’analisi. Cosa stavi cercando o perdendo?
«Cercavo una mano per la mia sofferenza e l’ho trovata. Certe volte crollo, ma so che fa parte della condizione umana e so che la ricerca è la mia vocazione, non smetto mai. Una volta il mio pneumologo, preoccupato per la mia salute, mi ha detto: "Chandra, basta scavare!". Ma io non so come si fa a non scavare. Galleggiare forse?».
Il tuo nuovo libro – "Il silenzio è cosa viva" testimonia della tua pratica buddista. Come vi sei arrivata?
«In India, in un ashram dove c’era un po’ di tutto e non sapendo bene l’inglese mi dissero: “Fai un ritiro di meditazione Vipassana, tanto si sta zitti”. Mi sono buttata ed è nato un grande amore. È stato come tornare a casa, come riconoscere un volto noto in una folla di estranei, come sentirsi nascere. Ma anche nella religione non riesco a stare in definizioni, etichette, formalismi. Studio, pratico, vivo, ma resto lo stesso cane che scava senza padroni».
Hai fatto molti pellegrinaggi in India, che idea hai di quel "continente"? Come sopravvive l’equilibrio fra tradizione e innovazione?
«Da troppi anni non vado in India per poter rispondere. È un paese violentissimo e mistico, antichissimo e capace di sorprenderti con cambiamenti impensati, è un luogo dove c’è ancora una visione della vita e della morte, la religione delle relazioni, ma il disastro è sempre vicinissimo, le ingiustizie spaventose. In India ho sentito l’accoglienza della stranezza, qualsiasi stranezza ha asilo in India e questo ne fa un posto della Grande Mente che è poi la mente senza confini, l’accoglienza senza giudizio».
Hai detto che il luogo in cui mediti è una stanza spoglia e l’hai paragonata al cuore. Cosa intendi?
«Voglio dire che un cuore vuoto è un cuore dove c’è posto. Un cuore vuoto è un cuore senza pregiudizi e molto aperto ma con i cardini, conosce infinitesime misure».
Come stai vivendo questi mesi di segregazione?
«Non sono nella mia casa, la penso, è lontana. La visito con il pensiero e la benedico, ma non sono lì. Sono in campagna, non distante dal lago d’Orta, dal mio compagno. Ero qui per riprendermi dopo una malattia e non sono più potuta tornare. Una grande fortuna e anche un grande distacco da tanto che credevo mio. I libri, i vestiti, gli oggetti, la casa, la città. Sono una sfollata».
L’esperienza traumatica della pandemia ci ha messi di fronte a un esperimento di massa. Come se alla fine tutte le storie vere e private siano diventate dei numeri.
«I numeri fanno male, l’assenza di sfumature fa male, il non sapersi collocare fa male, ma ho cercato di ascoltare le storie, di trovarle, di interrogarle. E ho ascoltato la mia. Quello che sento di più è che si è parlato pochissimo della distruzione ambientale che va avanti da troppi anni nell’indifferenza della maggioranza. Non voglio tornare al prima. Dove finiranno i miliardi di mascherine, i guanti monouso, i gel lava mani? In altre isole di plastica? Come possiamo non pensare il pianeta in un altro modo? Il mondo senza di noi è bellissimo, sembra che gli animali urlino: liberi tutti! Cosa faremo di questa esperienza? Non mi aspetto niente dai grandi della terra. Non mi aspetto niente dal pensiero sempre a caccia di un capro espiatorio. Non mi aspetto niente da chi segue le convenzioni e le abitudini e vuole tornare a dormire».
Forse vuole tornare a una normalità che credeva perduta.
«Quale normalità e per chi? Anche la pandemia ha colpito i più deboli, i meno protetti, non è stata affatto uguale per tutti».
Cosa ti ha insegnato questo tempo pandemico?
«Ho imparato a piangere per gli altri e così ho imparato a piangere anche per me. Il ghiaccio del pensiero non mi interessa. Voglio un pensiero che nasce dal sentire, che tremi, che pianga, che rida, che balzi di gioia e che resti un pensiero, non una serie di emozioni o di sensazioni sparse. Un pensiero che bussa e fa domande».
Che rapporto intrattieni con la parola sacro?
«Per me sacra è la vita di tutti i giorni, non è il separato dal resto. È anzi quello che unisco con la consapevolezza della mortalità, quello che salvo dall’ignoranza e dall’indifferenza. Sacro è quando mi sveglio e sento il respiro, quando apro la finestra e vedo, quando cammino sapendo di camminare, quando sono grata. Sacro è tutto quello che investiamo di attenzione e di silenzio, assenza di commento. Allora tutto brilla di vita nascosta, segreta. Sacra è la natura e va custodita».
Cos’è per te Buddha?
«È la possibilità di risveglio che c’è in ognuno di noi. Aprire i sensi e sentire: conosco, sto conoscendo quello che mi succede. Riconoscere, perché questo è il dolore e questa dunque la gioia. Riconoscere quanto è viva la vita stando nel mutamento e vivendo tutto quello che ci capita: non intendo le grandi avventure, ma questo preciso attimo. Inchinarmi all’umiltà della mia condizione è Buddha».
Accenni alla gioia e hai scritto che c’è la gioia dell’etica. Può l’etica essere gioiosa?
«Oh sì, se fa sentire che non mentire, non sedurre, non rubare, non intossicarsi, non uccidere sono gesti politici che proteggono la mia mente e la tua, la mia vita e la tua. In questo senso Covid 19 è un Maestro: se metti a rischio te metti a rischio me, e chissà quanti altri con noi. La sobrietà, la riflessione, la gioia della conoscenza danno un senso della purezza che è inebriante, senza diventare severi o giudicanti verso gli altri. Conoscere la bellezza del vuoto non fa rimpiangere alcuna trasgressione».
C’è un verso di un poeta che ami e che ti porti con te in questo momento?
«Osip Mandel’Štam: "Ma se per l’attimo sei angustiato/tremendo è il tuo destino/e la tua casa fragile"».