L’ultima volta — era la Biennale di Arte di Okwui Enwezor — eravamo con Alexander Kluge e — dopo uno spritz e un piatto di sarde in saor in una calle — siamo volati sull’acqua alla Giudecca a salutare Rem Koolhaas. E poi fino a notte tarda a bere e chiacchierare in un bácaro... Oggi fa paura pensare di aver perso, almeno per lungo tempo, quel modo di stare insieme. Sarà così? Tu andrai alla Biennale Cinema? E cosa pensi del futuro di un cinema privato di quella camera buia dell’inconscio collettivo che è la sala cinematografica?
AMOS GITAI
Ah, Venezia, Venezia… nonostante il virus non è il caso di seguire Thomas Mann, a proposito di Venezia e della morte. Ma io penso, caro Stefano, che i veneziani ne avessero abbastanza di essere guardati come zombie in un museo vivo ma antico… ora che Venezia è tornata alla realtà, la città può dedicarsi al carpe diem, nel senso che può cercare di sfruttare al massimo questa crisi e reinventare se stessa. Venezia è un posto fantastico, che ci induce sempre a celebrare le limitazioni, niente auto, principalmente barche, l’odore del sale e dell’acqua marina, le lagune… Sono cose che fanno capire che forse la cosa più eccitante di questa città è il fatto che ti obbliga a ragionare in modo diverso sugli spostamenti e questa crisi, in fondo, ci invita a trovare nuovi modi per spostarci nello spazio… Mi hai chiesto del cinema e io ti rispondo parlando sia di cinema sia di architettura… carpe diem, cerchiamo di ripensarlo, di collegarci ai suoi significati civici in tutti e due i nostri medium, e con la speranza di vederci questo autunno a Venezia. Riguardo alla presentazione, il cinema, a differenza del teatro, della musica, dell’opera lirica, non è necessariamente un’esperienza dal vivo, ha a che fare con l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, rievocando Walter Benjamin. Sono sicuro che reinventerà modi di visione, ma lasciamo un po’ di mistero sul nostro progetto architettonico congiunto… STEFANO BOERI
Sì, per il momento meglio lasciare il mistero... Ma devo raccontarti una cosa: in questi giorni di lockdown e confinamento forzato ho riletto i 14 straordinari seminari che nel 1977 Roland Barthes tenne al Collège de France su Comment vivre ensemble (titolo che dovrebbe aver ispirato, molto prima della pandemia, il tema della prossima Biennale di Architettura).
In quelle lezioni, Barthes raccoglie frammenti di narrazioni e di descrizioni di spazi attorno all’impossibile equilibrio tra vita in solitudine e vita in comunità. Leggendo alcuni passaggi, mi sono venuti in mente due frammenti in "piano sequenza" del tuo lavoro di regista: il pianto disperato e solitario di Natalie Portman davanti al finestrino di un taxi diretto verso la Giordania in Free Zone (2005) e la scena corale di manifestanti e polizia che scorrono davanti alla telecamera in The Book of Amos (episodio di Words with Gods, 2014).
Pensando a quelle immagini mi sono chiesto come potremo in futuro garantire sia la «giusta distanza» dei corpi che la «necessaria intensità» degli affetti e delle emozioni. Penso e temo che sarà un equilibrio tutto da reinventare.
AMOS GITAI
Sono d’accordo con te che il titolo di Barthes è perfetto per proporlo agli architetti a Venezia, e sono sicuro che gli architetti possono avere risposte valide da dare. Come vivere insieme… Dopo le mie sessioni al Collège de France abbiamo parlato di spazio e struttura, cinema e architettura, quando sono venuto a vederti alla Triennale. Anche nel contesto israeliano gli insegnamenti urbani sull’organizzazione dello spazio nel kibbutz erano validi… come facciamo a progettare un’intera comunità con un accesso quasi esclusivamente pedonale? Come suggerisci tu, faremmo bene a prenderci questo tempo per analizzare le idee passate (di Barthes) che possono avere qualche indicazione per il futuro. Lascia che parta dalla tua ultima domanda. Possiamo pensare insieme a un modo per creare una nuova camera oscura. Quella del carpe diem nel senso di come riuscire a catturare l’hasard, l’accidentale, nella nostra esperienza cinematografica… La sequenza a cui ti riferisci nel mio film Free Zone con Natalie Portman è un caso del genere: una donna, la Portman, è seduta dentro un’automobile e attraverso l’espressione del suo viso possiamo completare e proiettare molte narrazioni ed emozioni.
Ma questa sequenza è anche il risultato di una fusione di diverse circostanze (tempo atmosferico malinconico, stato d’animo, macchina da presa a mano poco invasiva ecc. ecc.). È il caso di molti altri film, quello sull’omicidio di Rabin, Kadosh, Kippur e anche il nuovo Leila in Haifa… La domanda che voglio farti, Stefano, è come si fa ad avere un processo simile in architettura, un medium che sta diventando sempre più premeditato, sempre più al servizio della spettacolarità del disegno, come si fa a mantenere l’apertura del carpe diem.
Che cosa possono fare l’arte, l’architettura, il cinema per recuperare l’aura del guaritore, come possiamo rimpadronirci dei suoi significati, che sono rimasti addormentati tra le nostre mani in quest’epoca postcapitalista… Torniamo, in modo un po’ ossessivo, ai significati originali del carpe diem.
In Orazio, la frase è più lunga e dice
Carpe diem, quam minimum credula postero, che viene spesso tradotto come: «Afferra il giorno, confidando il meno possibile nel domani». L’ode dice che il futuro non si può prevedere e non si devono lasciare al caso gli eventi futuri, ma si dovrebbe fare tutto quello che si può oggi per rendere migliore il proprio futuro. È una frase che solitamente viene ricondotta alla formazione epicurea di Orazio.
Ma se torniamo all’espressione e ai suoi significati trasposti nell’epoca del coronavirus, forse la prima manifestazione scritta del concetto è il consiglio che dà Siduri a Gilgamesh, quando gli dice di rinunciare al suo lutto e abbracciare la vita.
STEFANO BOERI
Vedi Amos, io credo che questa pandemia ci ponga di fronte a una serie di grandi interrogativi circa il farsi del tempo e della storia.
Il primo: si potrebbe pensare che questo evento sia una colossale smentita di quanto tu e io abbiamo imparato studiando Fernand Braudel e gli altri storici della scuola degli Annales; cioè che la storia non è fatta da eventi solitari, ma dalla lunga durata di processi strutturali.
Eppure, a pensarci bene, è anche vero che questa pandemia è in stretta relazione con due altre crisi globali che riguardano la vita della specie umana: la crisi finanziaria del 2007 con il crollo della fiducia nel rapporto tra crescita quantitativa e sviluppo, e la crisi climatica che — a partire dal 2015, dalla COP 21 di Parigi e dalla Laudato Si’ di Papa Francesco — è diventata un’evidenza drammatica per tutti noi. La crisi pandemica non è dunque la smentita degli Annales, ma piuttosto la conferma che un singolo evento, quando è esito di una lunga catena di eventi, può traboccare dall’ordinario e generare una catastrofe che cambia la storia.
Un secondo interrogativo riguarda invece la percezione del presente e del futuro, di cui parli.
Per me, oggi, carpe diem significa avere consapevolezza della natura «istantanea» del futuro che viviamo. In altre parole, è come se improvvisamente il tempo lunghissimo della storia del pianeta e il tempo ciclico e presente della vita quotidiana degli uomini fossero andati in corto circuito. Il futuro si è come schiacciato sul presente quotidiano. Oggi viviamo un futuro «istantaneo», un futuro costruito dai gesti simultanei e attuali di miliardi di umani. La dieta che scegliamo, il modo con cui ci spostiamo nel territorio, il nostro rapporto con la natura decidono infatti le sorti del riscaldamento del pianeta, dello scioglimento dei ghiacciai, del livello degli oceani, della sopravvivenza della nostra specie o della sua inevitabile estinzione. E tutto questo dipende da noi, qui e ora. Forse solo i giovanissimi lo hanno capito.
AMOS GITAI
Ho pensato a quello che diceva Ivan Illich al riguardo nel suo testo sulla Nemesi medica… Proviamo a dirlo diversamente: quello che nessuno è riuscito a far entrare nella testa degli esseri umani con abbastanza intensità e insistenza riguardo alle conseguenze della distruzione dell’ambiente ora è riuscito a farlo un minuscolo virus, più piccolo di un millimetro o forse ancora meno, che è riuscito a mettere in ginocchio potenti interessi globali, politici che si considerano sofisticati manipolatori machiavellici, interessi giganteschi di società multinazionali e un intricato sistema bancario.
A noi non resta che aspettare e osservare, domandandoci se questo minuscolo virus, invisibile ai nostri occhi, riuscirà a provocare il cambiamento di poteri di simile portata. Che contributo può dare a questa riflessione una nuova concezione dell’architettura, dell’urbanizzazione, della cultura, del cinema…?
Torniamo alla procedura e ai metodi della progettazione architettonica o della realizzazione di un film… In entrambi i casi non si tratta di arti intime, tutte e due coinvolgono tante persone: in un film ci sono sceneggiatori, scenografi, cineoperatori, attori, montatori ecc. ecc.
Gli architetti hanno gli ingegneri strutturali, gli esperti di fognature, i costruttori e così via. Entrambi i media partono da un testo scritto e la domanda che tutti e due si pongono è come tradurre la narrazione in forma.
Tutti e due sono vincolati dai limiti economici del progetto e in alcuni casi sono sottoposti a interventi politici o censura…. In molti casi, gli interventi cercano di intromettersi nella forma, il ritmo del film, la sua struttura associativa non lineare come una forma moderna di narrazione (alla Joyce o alla Proust), sovrapponendo frammenti… Bisogna avere spina dorsale per reggere tutto questo. Con le risorse che diventano ancora più limitate, c’è urgente necessità di atteggiamenti nuovi, perfino radicalmente nuovi.
Il minuscolo virus riuscirà a mettere in discussione tutti questi assunti e ci indurrà a preoccuparci dell’unico pianeta che tutti condividiamo? Una domanda per te e per Barthes… STEFANO BOERI
Credo dipenda da noi. Questo virus è davvero crudele nel farci del male nel momento stesso in cui ci conferma le nostre responsabilità di specie dominante sul pianeta... Ci vorrebbe Andrej Tarkovskij (mi viene in mente soprattutto Solaris, 1972) per aiutarci a capire l’intimità umana della natura. Una natura che siamo abituati a trattare come fosse un mondo esterno da colonizzare o riparare (penso all’ultima esposizione internazionale che abbiamo promosso come Triennale di Milano, curata da Paola Antonelli) quando invece ne siamo parte integrante.
O ci vorrebbe Michel Foucault, che ci parlava della Follia come espressione della natura umana, una natura che si manifesta come una imprevista emersione di un’energia incontrollabile e sovversiva dei codici sociali, sorgendo dall’interno del nostro corpo e della nostra mente. La verità è che dipende da noi cosa ne sarà delle nostre foreste, dei nostri oceani e delle nostre città.
Invece che tornare pigramente a quella normalità che ha al suo interno molte delle cause di questo disastro, dovremmo scrollarci di dosso ogni pigrizia e avere il coraggio di fare un salto evolutivo, darwiniano.
Pensaci: dopo una tragedia universale la specie umana cambia registro: la smette di consumare carburanti fossili, di deforestare il pianeta, di strappare terre alle altre specie viventi, di guerreggiare per un Dio che rischia di assistere all’estinzione dei suoi stessi fedeli. E si mette a ricostruire le città come caleidoscopi di biodiversità, a riabitare i borghi delle montagne restituendo spazi di vita alle piante e agli animali selvatici, a esplorare gli oceani e gli spazi non per colonizzarli, ma per avvicinarci al senso stesso dell’esistenza.
È una sfida gigantesca eppure proprio oggi possibile. Perché noi siamo una specie che, come dici, sa dar forma ai sogni. E se tracciamo una linea che unisce le idee più avanzate emerse dalle ultime crisi, abbiamo già in mano le politiche — insieme visionarie e graduali — che potremmo applicare. Dico di più: che dovremmo applicare per rigenerare, anche economicamente, la nostra presenza nel mondo.
Hai fatto bene a ricordare questa grande mostra che hai organizzato alla Triennale lo scorso anno, Broken Nature. È stata un’esperienza reale (quasi profetica…) sull’urgenza di voltarci a guardare le attività distruttive del nostro amato genere umano. Ora, rimane la domanda: che cosa si può fare?
Nei miei anni di studio per un dottorato in architettura a Berkeley, mi imbattei nel testo di Ivan Illich La convivialità e nel libro di Schumacher Piccolo è bello. Questi testi offrono un contesto teorico per capire cosa si può fare dopo l’epidemia, perciò non dimentichiamoci del carpe diem: cogliamo l’attimo.
In modo simile alle grandi iniziative di edilizia residenziale di quasi cento anni fa, come il quartiere Weissenhof a Stoccarda, che riuscirono a mettere insieme Le Corbusier, Mies van der Rohe, Walter Gropius e altri con una semplice sfida di buona architettura: «come creare un ambiente vivibile» con spazi abitativi non superiori ai 70 metri quadrati. La stessa operazione fu ripetuta in molti altri posti, come il quartiere di case popolari Karl-Marx-Hof a Vienna, che ancora oggi rappresenta un’importante area abitativa. Insomma, caro Stefano, accolgo la tua proposta: pianifichiamo insieme una strategia, quando ci incontreremo a Venezia.
P. S. Questo potrebbe essere il nostro omaggio a Pasolini, che ci chiedeva di non dimenticare le lucciole che lo ispiravano ai tempi della sua infanzia; se faremo bene il nostro lavoro, le lucciole ricompariranno, così come in questi giorni stanno ricomparendo le gazzelle sulle colline di Gerusalemme.
STEFANO BOERI
Sì, io credo — come te — che la buona architettura debba nascere da una visione cinematografica e anticipata della vita che in essa si svolgerà; dal «montare» entro un paesaggio una particolare sequenza di comportamenti e emozioni. E questo, io credo, è il tempo per studiare sequenze nuove. Il tempo per immaginare insieme comportamenti (fino a poche settimane fa) imprevedibili. Vediamoci presto a Venezia. Un abbraccio.
Traduzione Fabio Galimberti