la Repubblica, 16 maggio 2020
Biografia di Mario Orfeo
Come tutti i serial che si rispettino, occorre sempre ripartire da dove s’era lasciato. Dalla presentazione dei palinsesti autunnali 2018-2019, una delle ultime uscite pubbliche dell’allora direttore generale della Rai Mario Orfeo. Il neonato governo gialloverde gli aveva appena notificato l’avviso di sfratto – uno dei primi atti decisi dal tandem Di Maio-Salvini – e il giornalista partenopeo, sempre addentro alle cose della politica, aveva capito che quello sarebbe stato il suo canto del cigno. Sostituito da Fabrizio Salini, esattamente un mese dopo, al settimo piano di Viale Mazzini, come da profezia lanciata da Fiorello, qualche mese prima, dal podio di Sanremo: «Se il 4 marzo vince il toy boy di Orietta Berti – disse lo showman riferendosi a Di Maio – rischi di diventare un precario».
Quel giorno di fine giugno Orfeo salì sul palco allestito negli studi di Via Mecenate a Milano e mostrò tre foto. Giulio Regeni, padre Paolo Dall’Oglio, Ilaria Alpi. «Non li dimenticheremo e non ci fermeremo finché non conosceremo la verità», disse citando le 7.950 ore di notizie e approfondimenti trasmessi dalla Rai. Il suo chiodo fisso, il giornalismo di qualità, l’unico modo «per battere fake news e leoni da tastiera». La sfida da cui ricominciare ora che il cda gli ha affidato il Tg3: a lui che già aveva diretto il Tg2 prima, e il Tg1 poi. «Sono molto contento», risponde agli amici che lo chiamano per congratularsi, «il bello di questo mestiere è fare cose sempre nuove e il Tg3 fra tutti è il giornale più identitario, ha una spiccata vocazione al sociale, che in tempi di Coronavirus assume un’importanza ancora maggiore». Identità alla quale Orfeo intende tener fede: «Il mio telegiornale si ispirerà più a valori popolari che populisti. Saremo vicini ai bisogni e alle richieste dei cittadini, senza però cavalcare paure e istinti sovranisti». Non sarà Telekabul né una sua versione governista. E men che mai il neo-tris-direttore si farà condizionare dall’accusa di essere «troppo renziano», lanciata dai 5S per sbarragli la strada. «In Rai c’è molta più libertà di quanto si racconti fuori», è il mantra. «Io non ho mai avuto tessere di partito, né tanto meno di correnti. Però quando bisognava prendere posizione l’ho fatto perché il giornalismo è anche scegliere. Naturalmente rispettando sempre il pluralismo e garantendo pluralità di voci».
Cinquantaquattro anni, napoletano dei quartieri bene, Orfeo si definisce «un milanista allegriano». Allievo dei gesuiti al prestigioso liceo classico Pontano, ad appena 22 anni è cronista di sport a Napolinotte. «È un lavoratore instancabile», dicono tutti di lui, «veloce nell’esecuzione e abile nei rapporti», una fama che lo ha sempre preceduto. Lavora nella redazione napoletana di Repubblica quando Eugenio Scalfari lo chiama a Roma. Da lì brucia tutte le tappe interne finché nel 2002 gli viene proposta la direzione del Mattino.
Nel 2009, sotto il governo Berlusconi, approda alla direzione del Tg2. E assesta un colpo al “fratello-coltello” Augusto Minzolini, allora al Tg1: l’intervista esclusiva all’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che per esprimere solidarietà al Cavaliere dopo l’aggressione in piazza Duomo, colpito da una statuetta, sceglie il Tg2 e non la testata ammiraglia.
Dopo un breve ritorno alla carta stampata, alla direzione del Messaggero, nel 2012 conquista la tolda del Tg1. Dove resterà per cinque anni: una delle direzioni più longeve.vResistendo pure all’anatema di Beppe Grillo e alla campagna del M5S contro di lui. Anche perché, nel frattempo, il suo tg macina share e scoop. C’è sempre lui, per dire, dietro la prima telefonata di Papa Francesco in diretta tv, nello spazio informativo di UnoMattina.
Il resto è cronaca. Nel 2017 scala la vetta del servizio pubblico. Diventa direttore generale. Fino alla cacciata gialloverde. Per un anno resta senza far niente, poi viene “parcheggiato” alla presidenza di RayWay. Oggi è di nuovo alla testa di un Tg. Il terzo, l’unico che mancava al suo palmares.