ItaliaOggi, 16 maggio 2020
Com’è il tedesco di un mafioso?
Ho conosciuto a Roma una signora che da anni traduce, per il doppiaggio e per i sottotitoli, film inglesi o americani. È bravissima. Il suo compito è difficile, soprattutto quando deve trovare la parola adatta per una parolaccia texana. Per Irishman di Martin Scorsese si è trovata a dover rendere in italiano comprensibile, l’italiano dei mafiosi emigrati a Brooklyn, tra slang e dialetto, quello di oggi e quello di 60 anni fa. Senza dimenticare il problema di far corrispondere nel doppiaggio il movimento delle labbra.
La traduttrice dei primi Camilleri in Germania, che aveva tradotto un mio libro, mi chiamò in aiuto. La sconsigliai di rendere in bavarese il siciliano del commissario Montalbano. Inoltre, il siciliano di Camilleri è inventato, altrimenti non lo capirei neppur io. È il dialetto per finta che usano gli intellettuali isolani per fingere di parlare in siciliano, ma ci sono già differenze notevoli tra la mia Palermo e Porto Empedocle, che sarebbe la Vigata dei romanzi. Ma come parla in tedesco un capomafia al cinema o alla Tv?
In un episodio della serie gialla ambientata a Ludwigshafen, l’Hauptkommissar Mario Kopper, figlio di immigrati siciliani, viene contattato da un amico di gioventù diventato un killer della mafia, deciso ad abbandonare l’onorata società. Gli attori cercano di parlare in dialetto con effetti a volte comici. Non riescono a pronunciare ’ndragheta. Aiutano i sottotitoli. Ma il vaffa non viene tradotto. I tedeschi lo hanno adottato insieme con ciao, capuccino, bella e amore.
Un problema in Germania, ha scritto la Süddeutsche Zeitung. «Deutsch als Fremdsprache», è il titolo dell’articolo, il tedesco come una lingua straniera. In Italia, nei serial tv, si parla o in romanesco, o in napoletano, senza esagerare. Ma la Germania è uno stato federale, e i Tatort, i gialli tv, e i serial, sono prodotti dalle varie emittenti dei Länder, le regioni, e per amore del realismo si abbonda nei dialetti, che a volte sono quasi delle lingue, come il siciliano o il sardo. Tannbach è la storia di un paese in Franconia, la parte della Baviera al confine con la Turigina. Tutti parlano in fränkisch, in francone, ma chi lo capisce già a Monaco?
A Amburgo, dove ho vissuto sei anni, dicono Alter Schwede, vecchio svedese, in realtà in gergo vuol dire «vecchio mascalzone», scambio di affettuosità tra amici, oppure «accidenti», a seconda del contesto. Il dialetto della città anseatica è un misto di danese e di inglese e di tedesco. Incomprensibile per un berlinese. Ma alla Norddeutsch Rundfunk, l’emittente anseatica, parlano in dialetto anche in diversi programmi d’informazione.
Alla Westdeutschrundfunk si parla kölsch, il dialetto di Colonia, ma senza esagerare. Già nella vicina Ruhr si parla diversamente che sotto il Duomo. E a Düsseldorf, che si vanta di essere la città più elegante in Germania, si preferisce parlare Hochdeutsch, il tedesco di Goethe. Forse le preoccupazioni veristiche dei registi cominciano ad essere esagerate. Secondo uno studio dell’ Università di Augsburg, la nostra Augusta, in Baviera, sempre meno bambini al Kindergarten si esprimono in dialetto. Sono stati esaminati 5.341 bambini in 173 asili infantili. Solo 974 parlavano in dialetto, il 18%. In 2.401, il 45%, erano capaci di esprimersi in un tedesco senza inflessioni locali, e gli altri stavano in mezzo. Secondo gli analisti, una buona metà dei bambini comunque usava espressioni e parole che tradivano la loro origine locale.
Parlare in bavarese o in schwäbisch, l’incomprensibile svevo, rispetta le radici locali, ma diventa un ostacolo da adulti. Il linguista Werner König ritiene che i dialetti giochino un ruolo importante per l’indentità regionale, e andrebbero tutelati, ma allo stesso tempo in Germania il modo di esprimersi ha un peso sulla carriera. Come in Gran Bretagna, basta l’accento poco oxfordiano a chiudere molte porte. Nella nordica Amburgo non diventerai mai dirigente se parli come a Augsburg, e viceversa.
Credo che a parlare un tedesco senza accento, e un buon inglese, siano i mafiosi dell’ultima generazione. Hanno il doppio passaporto, una laurea o due, non lavorano in pizzeria come negli Anni Sessanta, ma nelle multinazionali di Francoforte, e sono specialisti nel lavare il denaro sporco frutto dello spaccio di droga.