Corriere della Sera, 16 maggio 2020
A casa o in ufficio? Sfida tra big tech
NEW YORK Il rischio, dice Robert Reich, l’economista di Berkeley che fu ministro del Lavoro di Bill Clinton, è che il cambiamento dei comportamenti e dei modi di lavorare imposto dalla pandemia produca nuova divisioni nella società, nuove diseguaglianze: non più borghesi e proletari, ma remoti, essenziali e disoccupati assistiti. Con i lavoratori della conoscenza, i remoti, che diventano i nuovi privilegiati (più ancora che per il reddito, perché possono lavorare chiusi in casa) mentre quelli dei servizi – trasporti, ospedali, ristorazione – non solo non possono lavorare in remoto, ma sono costretti a rischiare nel contatto fisico con utenti, pazienti e clienti.
Ma siamo davvero entrati nell’era del telelavoro? Un esperimento sociale già tentato altre volte in passato e sempre fallito, stavolta sembra avere successo. E c’è chi prevede che le torri di uffici orgogliosamente erette da grandi metropoli come New York, Londra e Shanghai diventeranno come certe fortezze abbandonate sui monti o all’ingresso delle valli alpine. Balaji Srinivasan, un venture capitalist della Silicon Valley, risolve tutto con uno slogan: «Sell city, buy country». Cioè via dalle pazze metropoli, meglio scommettere su campagne, sobborghi, città più piccole.
«Macché» nega recisamente Anthony Malkin, capo di Empire State Realty Trust. «L’uomo è un animale sociale che ha bisogno di contatti personali diretti, anche sul lavoro: il modo in cui stiamo vivendo ora non è sostenibile. La città e i loro uffici torneranno a riempirsi». Malkin, il cui gruppo possiede l’Empire State Building, ovviamente tira acqua al suo mulino, ma sono in tanti a notare che lo spopolamento di New York, annunciato tante volte in passato – dopo l’influenza spagnola del 1918, dopo la Grande Depressione, dopo l’attacco terrorista del settembre 2001 – non si è mai verificato.
Certo, stavolta ci sono due novità importanti: una pandemia che ha imposto cambiamenti sociali senza precedenti per profondità ed estensione planetaria, e la disponibilità di tecnologie che consentono di replicare in video le riunioni di lavoro e di trasferire sui canali digitali la maggior parte delle attività che implicano collaborazioni interpersonali.
Non a caso sono stati i giganti del mondo digitale i primi ad adottare in modo massiccio e a lungo il lavoro a distanza. Fino a dopo l’estate, o addirittura fino a fine anno per quelli di Google, Facebook, Microsoft, mentre Twitter ha addirittura deciso di offrire, a chi lo desidera, la possibilità di lavorare in remoto a tempo indeterminato, senza riaffacciarsi più in ufficio. Ma Apple va in controtendenza, riaprendo gradualmente già a maggio la sua nuova e avveniristica sede, l’«astronave» di Cupertino: prevede una ripresa piena dell’attività in sede da luglio, pur mantenendo in alcuni casi la possibilità di lavorare in remoto.
Quanto ad Amazon, è l’incarnazione della nuova società diseguale di Reich: funzioni corporate gestite in telelavoro mentre l’aumento vorticoso delle vendite con consegna a domicilio in tempi di coronavirus ha spinto il gruppo di Jeff Bezos ad assumere ad aprile altri 175 mila dipendenti che si aggiungono ai quasi 800 mila che già lavoravano nei grandi depositi di smistamento delle merci e nei canali logistici della distribuzione. E, poi, c’è Elon Musk: abbiamo già raccontato la sua insofferenza per il distanziamento sociale e le forzature per tentare di riaprire gli stabilimenti. Certo, le sue sono produzioni manifatturiere, sia pure avanzatissime: difficile costruire auto elettriche, missili e astronavi lavorando da casa. Ma Musk non pensa a un trattamento diverso dei lavoratori della conoscenza, visto che ha piazzato fin dall’inizio le scrivanie di ingegneri, matematici e computer scientist nei capannoni delle fabbriche, in mezzo alle linee di produzione.
Quando usciremo dal tunnel della pandemia il mondo del lavoro sarà, comunque, diverso e con ogni probabilità la densità dell’impiego negli uffici si ridurrà, forse in misura sostanziale: non si tratta solo di comodità del lavoratore, ma anche, in molti casi, di convenienza delle aziende che, se riescono ad ottenere la stessa prestazione in remoto, possono risparmiare parecchio, soprattutto in città costose come New York.
La società di consulenza Global Workplace Analytics ha calcolato che la trasformazione del lavoratore fisico in virtuale fa risparmiare 11 mila dollari l’anno tra affitto, forniture e spese di manutenzione. Mentre dall’indagine Gartner (interviste a 370 direttori finanziari di grandi gruppi Usa) emerge che il 74 per cento delle imprese Usa intende trasferire stabilmente in remoto almeno il 5 per cento del lavoro mentre un numero inferiore – un quarto delle aziende – punta a un telelavoro superiore al 20 per cento del totale.
Insomma l’ufficio non sarà mai più lo stesso, servirà di meno, ma non verrà soppiantato: non è ancora emersa una cultura alternativa del lavoro. E i guru delle trasformazioni sociali ci stanno spiegando come correggere alcuni difetti fisici dello smart work – mal di schiena per le troppe ore passate lavorando dal letto o dal divano e circonferenza addominale che cresce – mentre ancora non è chiaro come si fa a mantenere viva la cultura di un’azienda a distanza e come sia possibile riprodurre in modalità remota la creatività del lavoro di gruppo.