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 2020  maggio 16 Sabato calendario

Reportage dal Terzo Reich in macerie

Il 30 aprile 1945 Hitler si suicidò; l’8 maggio 1945, il suo successore, l’ammiraglio Karl Donitz, firmò la resa della Germania. Nei manuali scolastici queste date sono talmente ravvicinate da essere comprese entrambe all’interno di un unico evento, certificando la fine della Seconda guerra mondiale in Europa. In realtà quella fu per i tedeschi una settimana densa di avvenimenti che avrebbero segnato per sempre gli sviluppi politici del loro paese. A districarci in quel gomitolo di fatti ci aiuta ora un libro con un solido impianto storiografico (con frequenti riferimenti anche ai diari e alle lettere di cittadini comuni) e in grado di restituircene una narrazione avvincente che ne documenta tutta la drammaticità (Otto giorni a maggio, Dalla morte di Hitler alla fine del terzo Reich). Effettivamente successe di tutto. Molti tedeschi si tolsero la vita, per il terrore di essere invasi dai russi o perché incapaci di reggere al crollo delle certezze che avevano accompagnato la loro adesione al nazionalsocialismo. L’Armata rossa si abbandonò a violenze di ogni tipo, sfogando la sua sete di vendetta soprattutto sulle donne (alla fine si contarono più o meno due milioni di stupri). 
Questi aspetti erano già conosciuti. Ma nel libro di Ullrich c’è molto di più; c’è la descrizione puntuale, infatti, di un «interregno» politico e morale che puntualmente emerge nelle fasi di passaggio, quando nel vuoto di potere lasciato dal crollo del vecchio ordine e nell’attesa che si ricostruisca quello nuovo, le passioni si scatenano sulle macerie della legalità statuale. In quel coacervo di violenze non tutto però è ascrivibile a una frenesia di morte che erompe con la forza e la radicalità di un’eruzione vulcanica per poi placarsi in uno sbigottimento generale e nella rimozione del ricordo stesso di quegli orrori. I soggetti coinvolti sono troppi e troppo diversi per poterli leggere con un’unica chiave. Ullrich ci racconta così di milioni di uomini e donne che vagavano in una terra di nessuno dai confini labili e provvisori, tracciati da eventi bellici tanto convulsi quanti confusi. Tedeschi dell’Est in fuga verso l’Ovest, per sfuggire ai russi e mettersi sotto la protezione degli angloamericani; tedeschi espulsi dai Sudeti e dai territori polacchi occupati nelle prime fasi della guerra; prigionieri liberati dai lager, incamminati in lunghe colonne verso tutti i paesi in cui le truppe naziste avevano razziato uomini e risorse per alimentare l’economia schiavista del Terzo Reich; ebrei trascinati nelle «marce della morte» (su 714.000 detenuti nei lager all’inizio del 1945, 250 mila perirono in quei trasferimenti forzati); ebrei sopravissuti allo sterminio che si avviavano verso le loro case di un tempo, occupate ora da «ariani» ostili e maldisposti verso quei ritorni; altri ebrei incamminati verso la speranza di raggiungere Israele; colonne di prigionieri tedeschi scortati dai russi o dagli angloamericani, oggetto di vendette e soprusi. E poi ancora: tentativi di resistenza disperata ad est, con i resti di un esercito già sconfitto che aveva il solo scopo di ritardare l’avanzata sovietica; fraternizzazione ed accoglienze calorose per le truppe alleate ad ovest. L’inventore della V 2 (Wernher von Braun), che tante vittime civili aveva provocato a Londra e in Belgio, si consegnava incolume agli americani, candidandosi così ad essere il padre del progetto che, nel 1969, avrebbe portato l’uomo sulla Luna. 
In quei giorni febbrili si giocava anche una importante partita politica. Il libro racconta così le mosse dei tronconi istituzionali sopravissuti al crollo di Hitler. Ai gerarchi nazisti superstiti (Donitz era stato designato dal testamento del führer come presidente del Reich, mentre cancelliere era stato nominato Goebbels ) toccava il compito di trattare la resa; tentarono di spuntare le condizioni migliori attraverso un gioco diplomatico il cui obbiettivo dichiarato era dividere il fronte degli Alleati, alimentando quelle fratture che in seguito segneranno la guerra fredda. Si presentarono così come il baluardo della civiltà occidentale contro la barbarie sovietica: «mio primo compito è di salvare i tedeschi dallo sterminio dell’avanzante nemico bolscevico», aveva detto Donitz nel discorso di insediamento. Non ci riuscirono. La tenuta del fronte antinazista era ancora salda, con una sostanziale unità di intenti e una decisa volontà punitiva nei confronti della Germania. Ma il futuro era già lì . A Berlino arrivavano i comunisti tedeschi ( capeggiati da Walter Ulbricht ), tutti fedelissimi di Stalin, un serbatoio al quale i sovietici avrebbero largamente attinto per costruire la Repubblica democratica tedesca; sul fronte opposto ritornavano in scena i vecchi politici di Weimar, non compromessi con il nazismo (Konrad Adenauer fu il nuovo sindaco di Colonia), affiancati dai nuovi quadri della socialdemocrazia (Willy Brandt, il futuro cancelliere della Repubblica federale tedesca). Nuovi equilibri politici si delineavano, mentre il popolo tedesco si tuffava in una gigantesca opera di rimozione collettiva. «Nessuno è nazista, né lo è mai stato», annotava sconcertata la corrispondente di guerra americana, Martha Gellhorn. E forse, proprio in quella falsa coscienza si annidava il segreto di una ricostruzione tanto rapida quanto miracolosa. Il 1945 per la Germania era stato l’anno zero. Nel 1954 la nazionale calcistica della Repubblica federale conquistava il titolo di campione del mondo. E fu chiaro a tutti che con la Germania ci si ritrovava a fare i conti.