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 2020  maggio 16 Sabato calendario

Ófeigur Sigurðsson: «Dio esiste e abita in Islanda»

I grandi libri, dicevano a scuola, si riconoscono dalla capacità di parlare a chiunque, a qualunque latitudine e in qualunque circostanza. L’islandesissimo Jón Steingrímsson & le missive che scrisse alla moglie incinta mentre svernava in una grotta & preparava il di lei avvento & dei nuovi tempi è uno di questi. Il merito è di Ófeigur Sigurðsson, ex portiere di notte laureato in Filosofia, traduttore di Céline e Houellebecq nella lingua delle saghe, poeta e narratore. 
Il suo secondo romanzo, uscito in patria nel 2010 e appena pubblicato in Italia da Safarà, riesce a indagare le ragioni della crisi finanziaria che ha travolto Reykjavik nel 2008 e a predire lo stato d’animo dell’umanità paralizzata dal coronavirus. «Nessun mistero - spiega l’autore, raggiunto al telefono nel cottage di famiglia ai piedi dell’Hekla (sì, un altro vulcano, e non sono finiti) dove, sorpreso dal lockdown, trascorre le sue giornate scrivendo, leggendo e facendo lunghe passeggiate sui campi di lava in compagnia del suo cane -. In queste settimane siamo tutti isolati nella nostra caverna, proprio come Jón, e stiamo cercando di ripensare il nostro modo di vivere. Credo che il mio romanzo parli a tutti noi semplicemente perché ci siamo ricordati quanto siamo vulnerabili».
Qualcuno sostiene che, da questo punto di vista, il coronavirus potrebbe avere un impatto positivo sia sui singoli individui che sulle società nel loro complesso. Cosa ne pensa?
«Qui in Islanda sono scomparsi improvvisamente i turisti. Abbiamo realizzato quanto il nostro Paese sia pieno di spazio e stiamo riscoprendo il lusso della vastità, dei panorami, della vita selvaggia. È questo il nostro vero tesoro, la cosa più preziosa che abbiamo. Jón direbbe senza alcun timore che "il virus è il linguaggio di Dio" e ci rimproverebbe perché negli ultimi anni non abbiamo reagito come avremmo dovuto al riscaldamento globale». 
Certo, quello che emerge dal suo lavoro, e più in generale da tutta la letteratura islandese, è un cambiamento profondo nel rapporto fra l’uomo e natura. La vostra lingua, così attenta da avere un nome specifico per ogni fiocco di neve, lo ha registrato prima di altre. Quali sono le origini di questa trasformazione? 
«Credo che l’Islanda sia cambiata tantissimo a partire dalla Seconda Guerra Mondiale, quando tutti gli islandesi si spostarono nella capitale. La civilizzazione di Reykjavik è basata sulla vergogna collettiva per aver voltato le spalle alle fattorie nelle quali erano vissuti i nostri antenati. Penso che la modernità abbia creato una ferita nella psiche degli islandesi. Oggi le persone non sono così connesse alla natura come vorrebbero: vanno in bicicletta in montagna ma poi tornano a Reykjavik per lavorare. I vecchi islandesi che vivono nelle campagne stanno diventando una specie rara e tornare davvero alla natura è una scelta difficile, molto radicale».
Nella pagine di Jón ci sono un sacco di riferimenti all’uso medicinale delle piante e all’autoproduzione. Da qualcuno è stato letto come una risposta alla crisi economica che vi ha travolto nel 2008. È così?
«Sì, assolutamente. Non volevo scrivere un romanzo storico nel senso classico del termine. Dopo il 2008 la nostra nazione era in ginocchio e c’erano un sacco di similitudini con il 18° secolo quando peste, eruzioni e carestie uccisero quasi tutti gli animali e un terzo della popolazione. Allora si discuteva della possibilità di abbandonare per sempre quest’isola terribile. Eppure, grazie a individui come Jón, fu anche il periodo in cui catalogammo piante e minerali, e in cui scoprimmo che la nostra era una terra ricca di risorse. Forse è per questo che anche oggi guardiamo a quei tempi: siamo senza speranza e abbiamo bisogno di persone che ce la portino». 
Il suo romanzo è costruito intorno a un personaggio realmente esistito…
«Jón Steingrímsson è chiamato il "pastore del fuoco" perché nel 1785 avrebbe fermato una colata lavica che stava per travolgere la sua chiesa durante l’eruzione del Laki. È così amato che, se fossimo un Paese cattolico, probabilmente sarebbe un santo».
Lei, però, sceglie di ambientare la sua storia trent’anni prima. Come mai?
«Nella sua dettagliatissima e meravigliosa autobiografia c’è un capitolo mancante, quello relativo all’inverno del 1755-1756. Era in fuga insieme al fratello dall’accusa di essere un assassino, circondato dall’esplosione di un vulcano glaciale, ma provò comunque a immaginarsi una nuova vita. Ho visitato la grotta in cui trascorse quei mesi e ho setacciato gli archivi per cercare le lettere che scrisse alla moglie lontana, ma mi sono dovuto arrendere al fatto che non esistono più. In quel periodo mi consideravo uno scrittore fallito, non trovavo nessuno che mi pubblicasse e non sapevo cosa fare. Così una notte mi sono messo a riscrivere quelle lettere, per puro piacere. Jón ha avuto una grande influenza su di me, mi sentivo quasi posseduto dal suo spirito. Mi ha aiutato a credere in me stesso, a essere davvero ispirato e a prendere la letteratura più seriamente. Mi sono reinventato attraverso di lui nello stesso modo in cui lui reinventava se stesso».
Il suo protagonista è una figura con tante facce: scienziato e uomo di fede, protagonista dell’Illuminismo islandese e prete di campagna. Era davvero così?
«Steingrímsson era allo stesso tempo un uomo all’antica e un uomo aperto alle novità: imparò da solo la lingua tedesca e come operare chirurgicamente i tumori, ma era mosso soprattutto dalla pietà e dall’altruismo. A volte sembra che abbia un piede nella cristianità islandese e l’altro nel nuovo tempo che stava arrivando. Crede che Dio parli attraverso la Natura e interpreta i disastri naturali come un discorso di Dio sulla moralità dell’uomo. Dal suo punto di vista, se qualcosa va male, è perché gli uomini non si stanno prendendo abbastanza cura gli uni degli altri; per una carenza di amore. L’Illuminismo qui in Islanda si diffuse in ritardo perché eravamo tagliati fuori dal resto d’Europa a causa del monopolio danese. Ma una delle prime scintille si accese proprio in quella grotta. L’ho trovato un fatto molto poetico sul quale volevo mettere l’accento».
Il testo è raffinato perché è scritto con un linguaggio simil-settecentesco ricco e ricercato ma mai stucchevole. Come ci ha lavorato?
«Partendo dai testi che ci ha lasciato Steingrímsson ho costruito un piccolo dizionario fatto di parole speciali e mi sono accorto che il modo in cui usava il linguaggio definiva molto la sua personalità. Per catturare il suo personaggio ho dovuto imparare a scrivere come lui. Poi, però, per evitare che sembrasse solo un’imitazione, ho fatto un passo avanti usando anche le mie parole e la mia psicologia e mischiando lo stile moderno con quello vibrante, complesso e poetico del 18° secolo. Jón Steingrímsson è considerato uno dei modelli di stile della letteratura islandese. Scrivere nel suo nome è chiaramente una cosa molto coraggiosa e forse anche molto stupida, ma io sono abbastanza stupido da averci provato».
La storia si svolge durante l’eruzione del Katla del 1755. Mentre quella dell’Eyjafjallajökull, di cui tutti ci ricordiamo perché paralizzò il traffico aereo europeo, iniziò nel marzo del 2010, poco prima dell‘uscita del libro. Finì di scriverlo in quei giorni?
«Quando cominciò l’eruzione dell’Eyjafjallajökull ero seduto alla scrivania e mi ricordo molto bene cosa accadde. Stavo cercando di immaginare le emozioni che Jón doveva aver provato mentre attraversava i ghiacciai delle remote regioni centrali quando il Katla si risvegliò. Era impossibile per lui girargli attorno e poco dopo si trovò immerso nell’oscurità. Pensai che l’Eyjafjallajökull mi avrebbe rovinato tutto: sarebbe sembrato troppo opportunistico scrivere un romanzo incentrato su un’eruzione vulcanica nello stesso anno in cui ne avevamo una. Poi realizzai che invece era una grande occasione: saltai in macchina e andai alle pendici dell‘Eyjafjallajökull, che si trova nella stessa area in cui è ambientato il mio romanzo. I due vulcani distano infatti solo pochi chilometri. Ho guidato attraverso la nuvola di cenere, sono tornato nella grotta di Jón e ho continuato a scrivere».