Tuttolibri, 16 maggio 2020
Intervista alla scrittrice Carole Fives
«La madre sola del sesto piano». È descritta così la protagonista di Fino all’alba, il nuovo romanzo di Carole Fives, pubblicato in Italia da Einaudi. Lei non ha nome, né cognome. E neppure suo figlio di due anni, che si ritrova sempre tra i piedi, dopo che il padre se n’è andato, sparito d’un tratto. «Non ho dato loro dei nomi, perché la madre e il bambino, a forza di stare insieme, diventano un tutt’uno – racconta la scrittrice, in diretta skype da Lione, dove vive e dove ha ambientato la storia -. Entrano in una fusione totale. E tutto questo non è sano». Per rompere l’asfissia, la donna inizia a uscire di notte e a lasciare il piccolo pericolosamente da solo. Sempre più a lungo. Intanto, l’alba s’avvicina.
Ci descrive la protagonista?
«È venuta a vivere a Lione per seguire il padre del bambino, ma in città non conosce nessuno. Poi lui è andato via e non si capisce neanche perché. Questa donna fa la grafica freelance. Non è una dipendente e così non trova un posto per il piccolo all’asilo nido. È costretta a lavorare a casa, mentre lui fa il pisolino o la sera, dopo che si è addormentato. Ma il bimbo si sveglia e la reclama: "Vicino, vicino!"».
È difficile la loro relazione?
«No, è il classico rapporto di amore fra una madre e il figlio. Non ho voluto descrivere niente di patologico. È solo che lui chiede sempre più attenzione, mentre lei ha bisogno dei suoi spazi».
La protagonista comincia anche ad avere problemi finanziari, fa fatica a pagare l’affitto…
«Sì, ma non ho voluto ambientare la storia in una banlieue, in un palazzone di alloggi sociali. La madre si è laureata alle Belle arti di Parigi, proprio come me. Ha avuto successo con il proprio lavoro, ma inizia a perdere colpi. È una donna forte ma che, a poco a poco, diventa fragile. Questa condizione di mamma single la porta anche a un declassamento sociale. In Francia una famiglia su quattro ormai è monoparentale e nella maggior parte dei casi si tratta di donne single con dei figli. Hanno spesso problemi di soldi. La società le abbandona al loro destino».
La protagonista comincia a fuggire da questa sorta di carcere che è diventato il suo appartamento…
«Già dalla prima scena si capisce che ricorre a delle fughe durante la notte. Agli inizi vuole giusto prendere una boccata d’aria, fare il giro dell’isolato, appena una manciata di minuti. Poi, piano piano, le fughe notturne diventano sempre più lunghe, sempre più a rischio».
Il libro, con un finale a sorpresa, si trasforma quasi in un thriller. Perché?
«Il lettore ha paura per il bambino e anche per la madre. Ma c’è qualcosa d’istintivo, lei non ne può fare a meno».
Lione resta sempre sullo sfondo…
«Di giorno è una città borghese e abitudinaria, quale è. La notte è molto diversa. Lei incontra gente strana, particolare, diventa anche la città del proibito. La donna ritrova un corpo nella solitudine e nella notte della città. Non necessariamente sessuato, ma una presenza, finalmente. E la notte le sensazioni sono moltiplicate rispetto al giorno».
Fil rouge del romanzo sono alcuni brani di una favola, che interrompono il flusso del racconto. Si tratta di "La capra del signor Seguin", scritta da Alphonse Daudet alla fine dell’Ottocento. Perché questa scelta?
«La donna è attaccata al suo bambino come la capra al proprio paletto. E come quella di Daudet, tira sulla corda, incosciente del pericolo. È una favola sul desiderio di libertà e sul prezzo da pagare per essere liberi. Io ne ho dato una versione femminista. Ho sostituito una donna a quella capretta. Lei si batte contro il lupo e spera di poter resistere tutta la notte: "fino all’alba", che è il titolo del mio libro. La capretta non ci riuscirà, sarà mangiata dal lupo. La mia visione è più ottimistica».
Per trovare un po’ di sollievo e di comprensione, la protagonista del romanzo si mette a scrutare le chat, dove proprio le madri e soprattutto quelle single si scambiano opinioni. Come va a finire?
«Male, perché spera in una certa benevolenza, mentre le donne che non ne possono più di stare solo dietro ai figli e a cercare di sbarcare il lunario sono oggetto di linciaggio. La protagonista inserisce nella sua ricerca parole chiave come "single + soldi", "madre single + scomparire" oppure "lasciare solo il bambino + uscire". Legge in quelle chat le esperienze di donne come lei, ma che vengono sistematicamente aggredite dalle altre, trattate da incoscienti».
Con il nickname di Beverly, una madre racconta di essere stata piantata dal marito e di ritrovarsi sola con tre figli. Non sopporta più quel ritmo quotidiano. Vuole scappare e abbandonarsi dietro la prole, dire basta a quel tran tran angosciante…
«Sì e le altre mamme si scatenano in rete contro la povera Beverly, la trattano da madre indegna, la insultano. Si scatena una parola molto benpensante e moralizzatrice, perché Internet è diventato uno spazio di sorveglianza mutua e generalizzata. Quei commenti incarnano la pressione sociale che le donne s’impongono da sole. Il problema è che la società tollera l’assenza totale del padre ma non quelle alla fine molto corte di una madre, come la protagonista del mio romanzo».
In che senso?
«In Francia, come in altri Paesi, il padre separato dalla madre ha un diritto di visita. Vuol dire che, se non ha voglia d’incontrare il figlio, non lo si può costringere. È obbligato a dare una pensione alimentare ma non esiste un obbligo educativo. È la donna che deve compensare. Ma poi, se è libera professionista, spesso non trova un posto all’asilo nido per il figlio. La società non l’accompagna: è la prima volta che le donne vivono da sole con i loro bambini, perché un tempo c’era una comunità intorno alle madri single, ma oggi molto meno».
Per alcuni il fatto di poter tirare su da sola i figli è una forma di liberazione della donna…
«È illusorio e si crea anche una situazione arcaica, in cui lei deve portare il peso di tutta la famiglia. Si tratta del falso mito della madre coraggio, di una sorta di Magic Mum, la wonder woman degli anni Ottanta che prende in mano il proprio destino. Ma nella realtà è durissima».
Il suo è un libro femminista?
«Assolutamente. C’è anche una componente autobiografica. Ho vissuto una situazione simile. Ho dedicato il romanzo a mio figlio Odilon, che oggi ha sei anni».
Lei è stata a lungo pittrice e ancora oggi su Instagram posta tanti disegni. Perché ha cominciato a scrivere?
«Ero soprattutto una ritrattista, facevo pochi paesaggi o nature morte. E ancora oggi, nei romanzi, i miei sono ritratti psicologici, di donne in particolare. Poi, mentre dipingevo, iniziai a scrivere dei testi sui dipinti e a un certo momento mi resi conto che la scrittura era preponderante sulla tela».
Come procede a ogni nuovo romanzo?
«Il libro matura molto lentamente dentro di me. Poi, lo scrivo di getto, in due o tre mesi. In maniera quasi istintiva».