La Stampa, 16 maggio 2020
Così Orban approfitta della pandemia
Smartphone e computer sequestrati, post finiti sotto accusa e un clima da caccia alle streghe: negli ultimi giorni l’Ungheria di Viktor Orban sta conoscendo i primi effetti delle leggi speciali sotto la pandemia. Un anziano di 64 anni è stato denunciato per aver contestato Orban sui social, un membro dell’opposizione Momentum, Janos Csoka-Szucs, è stato preso dalla polizia per aver criticato la pratica di dimissioni forzate dagli ospedali, e l’europarlamentare Katalin Cseh ha raccontato su Twitter che «i suoi dispositivi sono stati sequestrati».
Nel frattempo, nella sede centrale del partito ungherese di Fidesz, guidato dal premier Viktor Orban, alle spalle del tavolo delle riunioni, campeggia una mappa dell’Ungheria che ha fatto impallidire molti leader dell’Europa orientale: non gli attuali 93 mila chilometri, abitati da poco più di 9 milioni di persone, ma gli oltre trecentomila precedenti il 1920, quando la «Grande Ungheria» includeva gran parte dell’attuale Croazia, Serbia, Romania e Slovacchia e contava oltre venti milioni di abitanti. La stessa cartina è stata postata qualche giorno fa sulla pagina Facebook di Viktor Orban per augurare buona fortuna agli studenti che si stanno preparando alla maturità, invitandoli a «non dimenticare la Storia». Se non ci fosse stata la pandemia del Coronavirus – la stessa che ha consentito al leader ungherese di assumere i pieni poteri del Paese, sospendendo le attività parlamentari e concentrando nelle sole mani dell’esecutivo di governo la gestione dell’emergenza – le celebrazioni per il centenario del Trattato del Trianon, il 4 giugno prossimo, si sarebbero trasformate nel trionfo dell’«Orbanistan», un Paese che non esiste in geografia ma i cui confini sono molto chiari nella testa del premier ungherese.
La disfatta dell’impero
Cento anni fa, con la fine della prima guerra mondiale, l’Ungheria assisteva alla disfatta dell’impero e diventava indipendente: il trauma è ancora vivo nel Paese, per cui l’indipendenza non ha coinciso con una conquista ma con una perdita. E’ in quella ferita che affonda il successo di Viktor Orban, capace di torcere il vittimismo in orgoglio, il liberalismo in nazionalismo. «Le sue celebrazioni non sarebbero state sotto il segno dell’ingiustizia storica come si potrebbe immaginare, ma all’insegna della rivincita – ci dice Stefano Bottoni, docente di Storia Orientale all’Università di Firenze, massimo esperto dell’area e autore di Orban. Un despota in Europa (Salerno editrice) – Orban in questi anni ha creato una fitta rete di rapporti diplomatici, economici, finanziari con oligarchi, investitori e persino con rappresentanti della classe media nelle vaste periferie post-sovietiche – Russia, Ucraina, Moldova – e nei buchi neri dell’integrazione europea, ex Jugoslavia e Balcani». Il motto «Make Hungary Great Again», nel centenario immaginato da Orban, non sarebbe passato dunque per il risentimento o la geremiade della patria perduta, ma per il ribaltamento della narrativa: contare in Transilvania, contare in Voivodjna, creare un blocco che attraversi le maglie larghe dell’Europa orientale e vada anche oltre le alleanze di Visegrad. A Orban piace giocare d’anticipo, e spiazzare gli avversari. Non è passato un giorno dalle accuse mosse nei suoi confronti dalla presidente dei socialisti ungheresi al Parlamento europeo Garcia Perez - che ha puntato il dito sulle violazioni in corso nel suo Paese in seguito all’applicazione di leggi di emergenza contro giornalisti e media indipendenti - che Orban, dalla Serbia, dove si trova in questo momento, ha fatto sapere di essere pronto a rinunciare ai pieni poteri: «Abbiamo difeso con successo la nostra patria e le nostre prestazioni sono paragonabili a quelle di qualsiasi altro Paese, ma daremo a tutti l’opportunità di scusarsi con l’Ungheria per le false accuse che sono state mosse contro di noi». Gabor Halmai, che dal 1990 al 1996 era un consulente della Corte Costituzionale Ungherese e oggi insegna allo European University Institute di Firenze, dice che non c’è da fidarsi: «Durante la crisi dei migranti del 2015 il governo introdusse una legge d’emergenza, e anche se in Ungheria non ci sono migranti e i confini sono chiusi, quella legislazione viene prolungata ogni sei mesi, dunque non vedo garanzie che la cosa non si ripeta anche per l’emergenza pandemia».
La lentezza di Bruxelles
Tanto quanto l’Europa è lenta a intervenire sul caso Ungheria, Orban è veloce nello scardinare schemi, attraversare frontiere, riempire vuoti economici e di attenzione. E’ bravissimo a usare due toni e due registri: uno che parli alla pancia del Paese, l’altro che rassicuri le élite di Bruxelles. Fa parte del suo carattere, che si è formato nel socialismo kadarista, in una famiglia della piccola borghesia rurale, mamma insegnante e papà agronomo. In una vecchia intervista Orban raccontava di come fosse costretto a restare a letto per giorni a cause delle botte ricevute dal padre, ma lo faceva con il sorriso sulle labbra, facendo finta di niente. Era così per tutti, nell’Ungheria del socialismo reale, dove la violenza era all’ordine del giorno ma se si era promettenti, come il giovane Orban, si potevano frequentare buone scuole e ottime università. E’ lì che Viktor ha imparato bene l’inglese, ha studiato legge, ha costruito la sua figura di leader presentabile e in grado di parlare con i potenti della terra. Ed è sempre lì che ha capito come il suo popolo avesse una naturale inclinazione all’acquiescenza e al rispetto per l’autorità costituita. La capacità di saldare paternalismo autoritario e vantaggi dell’economia di mercato fa di lui un leader insidioso nel cuore dell’Europa, capace di attirare consensi trasversali e sbilanciare verso Est l’asse degli equilibri. Non saranno le denunce degli attivisti o dell’opposizione a mettere in crisi il potere di Orban e la sua visione dell’Ungheria. Neanche la polizia politica del regime comunista riuscì ad arruolarlo, e tra le ragioni del mancato reclutamento si legge che Orban «sapeva mascherare le emozioni ma non tollerava la dipendenza dal gruppo e la necessità di adattarsi». Il compito di forzare la sua politica – e il suo carattere - stavolta spetta all’Unione Europea. La vicepresidente della Commissione Vera Jourova ha detto di ricevere quotidianamente relazioni sui diritti violati , e che «si sta monitorando la situazione in vista di possibili azioni legali», per il momento tuttavia soltanto annunciate.
Libertà violate
Anche il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas si è detto preoccupato per la limitazione delle libertà fondamentali, e anche lui ha annunciato che la Germania chiederà chiarezza quando assumerà la presidenza di turno del Consiglio Europeo il primo luglio prossimo. Ma è proprio la Germania di Frau Merkel ad aver lasciato più spazio, in questi anni, al protagonismo di Orban, nella convinzione che fosse strategico per mantenere equilibri economici e influenza sull’Est più inquieto.
Mentre l’Europa fa annunci, Orban corre, decide, cementa consensi e allunga la sua mano sulle periferie dimenticate da Bruxelles. «Il perimetro della nostra libertà è delimitato dal grado di potere che sapremo conquistarci», disse una volta Orban a un compagno di partito dopole elezioni del 1990. Fu allora che il disegno prese forma, passando per riforme illiberali che hanno colpito lavoratori, magistratura, diritti e giornalisti. Ma in Orbanistan, questo lo sanno già.