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 2020  maggio 16 Sabato calendario

Il problema del Covid infortunio

Da malattia il coronavirus diventa incidente sul lavoro. Gli imprenditori di ogni dimensione, senza distinzione di segmenti d’attività, ma anche i professionisti, lo studio di geometri, il laboratorio di falegnameria, la grande catena di distribuzione, l’artigiano con i macchinari nel capannone, lo studio associato di avvocati, il negozietto con il garzone: spaventa non solo per motivi affettivi ed etici il caso in cui un dipendente rimanga contagiato dal terribile coronavirus. 
La paura è che la malattia possa diventare una rivalsa o un processo penale, perché il contagio da coronavirus non è più considerato malattia bensì è sempre un incidente sul lavoro anche se l’azienda si è attenuta agli standard più rigorosi di igiene, anche se il dipendente si è contagiato nella vita privata. 
È il cosiddetto “effetto Inail” nel quale l’istituto di assicurazione sulla sicurezza del lavoro è incolpevole intermediario. Ed è il rischio di una responsabilità civile o penale per l’impresa. 
Nei giorni scorsi la Confindustria e le imprese più grandi avevano protestato e avevano proposto un ritocco normativo. Non è responsabile l’azienda che può dimostrare di essersi attenuta alle norme sanitarie più severe. 
Donatella Prampolini, catena di supermercati Sigma, vicepresidente della Confcommercio, ha 300 dipendenti molti dei quali, alle casse o lungo gli scaffali, da mesi sono esposti a un pubblico spesso indisciplinato. «I protocolli sanitari adottati in Italia per i supermercati sono stati modellati sulla nostra esperienza. Sa, noi siamo come una famiglia e abbiamo subito tutelato i nostri dipendenti che vengono a contatto con i clienti». E i clienti oggi indossano mascherine e si sfregano con il gel disinfettante, ma in marzo e aprile molti di essi erano resi riottosi o spavaldi dalla novità. «Non possiamo permetterci di lasciar ammalare le nostre ragazze e i nostri ragazzi, che vanno difesi. Però servirebbe una legge che dicesse: giusto il risarcimento Inail per chi si ammala, ma nessuna rivalsa o penalità per l’impresa che si attiene alle regole sanitarie».
Il tema della responsabilità datoriale preoccupa anche i professionisti. È il caso, ad esempio, dei commercialisti, i cui studi specie al Sud sono rimasti aperti anche nei giorni più difficili per agevolare i clienti alle prese con incombenze straordinarie come le richieste di cassa in deroga o quelle messe nero su bianco da decreto liquidità. 
«Questa disposizione del decreto Cura Italia non ci è piaciuta fin dall’inizio – spiega Roberto Cunsolo, consigliere nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili con delega all’area lavoro – tant’è vero che come commercialisti presentammo un emendamento all’articolo 42 proponendo di considerare infortunati solo i lavoratori contagiati di settori particolarmente a rischio, come quello sanitario». Con questo perimetro di responsabilità allargato la preoccupazione è che l’imprenditore possa trovarsi coinvolto penalmente anche per minime inosservanze dei protocolli di sicurezza. «Ricordo che in casi di contagio come quelli da coronavirus – sottolinea Cunsolo – il rischio di una prognosi superiore ai 40 giorni è elevato e che a quel punto la legge prevede l’esercizio dell’azione penale d’ufficio da parte della Procura. È giusto uno scudo penale che garantisca l’imprenditore».
Dello stesso parere è anche Andrea Ferrari, presidente dell’Aidc, l’Associazione italiana dottori commercialisti. «Questa linea di responsabilizzazione – dice – avrà come conseguenza quella di intasare i tribunali senza portare a nulla: individuare elementi di dolo in un imprenditore costretto a riaprire mi pare al limite della follia. Di fronte a una situazione eccezionale vanno scardinate linee di ragionamento che ci stanno portando alla rovina economica».
Una posizione per certi versi ancora più radicale è quella del presidente di Confprofessioni, Gaetano Stella. «Come spesso succede – esordisce – la norma che equipara il contagio da Covid-19 a un infortunio è tra le tante che avrebbero potuto essere scritte meglio, suscitando più dubbi che certezze e mettendo ansia a chi deve riaprire. Ci troviamo di fronte a una malattia che si è deciso venga pagata dall’Inail e non dall’Inps, e questo può andare bene, dando più copertura al lavoratore, ma non ci devono essere impatti sul fronte della responsabilità datoriale». Comunque sia, la norma preoccupa ma non spaventa Stella, secondo cui «se si applicano alla lettera le linee guide ritengo che il datore sia esonerato da responsabilità civili e penali».
Uno dei punti nodali per schermare il datore da profili di rischio anche penale è il rispetto assoluto dei protocolli di sicurezza, operazione che in alcuni casi può essere complicata, chiarisce Antonio Acquaviva, membro del Consiglio nazionale dei geometri e geometri laureati, con delega ai lavori pubblici e alla sicurezza. «Fondamentale è distinguere tra cantieri e studi, dove la prevenzione è più semplice. I cantieri hanno invece dimensioni diversissime, ci si può trovare di fronte a strade piccole, a difficoltà di apprestamento dei materiali, a rotazione delle lavorazioni ed è veramente difficile tirare una linea per tutti». Un lavoro, questo, che chiama in causa il coordinatore per la sicurezza, il quale, tuttavia, secondo Acquaviva non dovrebbe rispondere per gli adempienti di tipo sanitario. «Stiamo spingendo – dice infatti – affinché nel protocollo questo adempimento vada ascritto al medico competente».