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 2020  maggio 16 Sabato calendario

Sciascia a Parigi

È il 1955. È il primo viaggio di Leonardo Sciascia a Parigi, una città che per lo scrittore siciliano sarebbe diventata una meta costante, l’evasione letteraria, il luogo della ricerca per vedere forse meglio la sua Sicilia. Che non abbandona mai. E che vede ovunque e comunque. Anche a Parigi, sin da quella prima volta. Emerge chiaramente questo legame dai quattro tableaux parisiens del volume Parigi appena uscito per le raffinate edizioni Henry Beyle (pagine 84, euro 30 o 35 a seconda della sovraccopertina, in diverse carte giapponesi), di cui anticipiamo in pagina il primo brano: Besançon e Langres, dove Sciascia racconta la visita alle città natali di Victor Hugo e Denis Diderot. Curato dal ricercatore e filologo Paolo Squillacioti, il volume è arricchito dalle fotografie di Ferdinando Scianna che negli anni Settanta, a Parigi come corrispondente dell’Europeo, più volte accompagnò Sciascia nei suoi giri letterari. Due siciliani a Parigi. «Verrebbe da pensare – annota Squillacioti – che Sciascia non riusciva a liberarsi mai della Sicilia, neanche quando ne era lontano, e nella città che avrebbe dovuto rappresentare la sua antitesi più radicale». «Arrivato di sera, ero andato dritto in un albergo del boulevard Montmartre – ricorda quel viaggio Sciascia in un articolo del 1979 sulla rivista Dove vai che Squillacioti richiama nelle sue annotazioni –. L’indomani (…) prendendo un autobus per andare credo al Louvre (allora, di una città correvo subito a vedere i musei: ora credo avesse ragione Gide, che bisogna cominciare dai mercati, dai giardini pubblici, dai cimiteri e dai palazzi di giustizia), ad un certo punto vidi nella vetrina di una libreria antiquaria una carta della Sicilia splendida di colori». Già durante il viaggio di avvicinamento alla capitale, le tappe di Besançon e Langres, città natali di Victor Hugo e Denis Diderot, sono raccontate «con vari accostamenti alla Sicilia, con una coazione solo in parte motivata dalla destinazione palermitana del primo pezzo qui raccolto» (uscì con il titolo “Appunti di viaggio” sull’Ora del 26 ottobre 1955).
Sciascia tornerà a Parigi otto anni dopo e innumerevoli altre volte. E se per tutti Parigi aveva un immaginario erotico, l’essenza della città risiede agli occhi di Sciascia nella dimensione letteraria. Così Vincenzo Consolo in un’intervista del 2009 ripresa da Squillacioti: «Mi diceva nei viaggi che ho fatto con lui a Parigi: “qui tutto parla di letteratura”». Una “visione” scolpita nella memoria di Ferdinando Scianna, che seguì Sciascia «nelle indimenticabili scorribande tra librai antiquari, mercanti di stampe e luoghi della città». «Ho accompagnato Leonardo in tante occasioni nelle quali sono stati cercati, trovati, acquistati molti dei ritratti, soprattutto di scrittori, che ora vediamo alla Fondazione Sciascia di Racalmuto – ricorda Scianna fra le pagine di Obiettivo ambiguo (Contrasto) –. Anche la città era per lui una sorta di grande libro di pietra, ma non della sua storia, alla Victor Hugo, quanto piuttosto un libro dei libri, dove ritrovava, verificabili tra i nomi e i luoghi, gli innumerevoli amici scrittori, del presente e del passato, che in quelle strade, tra quei monumenti, in quei palazzi e giardini e caffè avevano vissuto facendone il teatro delle loro storie». Cercava gli scrittori come per costruire a poco a poco «una sorta di album di famiglia, la famiglia della letteratura». Da portare con sé, in Sicilia.
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Anticipazione da Leonardo Sciascia, Parigi, Henry Beyle, 2020
«Besançon km. 9» leggiamo sulla freccia stradale. È da circa tre ore che percorriamo una strada da cui ogni tanto ci balza incontro questo nome; ma è al km. 9 che d’improvviso ci troviamo a ripetere mentalmente che «Victor Hugo, figlio di un generale dell’esercito napoleonico, nacque a Besançon nel 1802». La città è alta, chiusa da massicce fortificazioni militari. Vi si entra come in una di quelle città italiane arroccate alte: non fosse per le insegne e le scritte, potremmo credere di essere ad Enna. Leggiamo «Café Victor Hugo», un caffè piccolo e vecchio, da piccola città siciliana. Piazzette irregolari e strade strette, tutte angoli e strozzature. Liceo Victor Hugo, liceo Pasteur. Una strada lunga, e la lunga facciata di un ospedale, che sfocia in una gran piazza da parate militari. Una brutta città da guarnigione. La piazza del municipio è fitta di macchine. Il cielo è del colore delle case, grigio e come screpolato. Ci fermiamo davanti al portone del municipio: un gruppo di persone vestite di scuro avanza come in avvinazzata solennità, davanti una coppia, lei gracile e carina, l’uomo piccolo e scuro: vanno a sposarsi in municipio, noi non abbiamo mai visto un matrimonio in municipio, ci incuriosisce poi la serietà quasi inebetita degli sposi e delle persone che li accompagnano. Seguiamo il gruppo fino alla scala, ai due lati della scala i medaglioni stuccati di Hugo e Pasteur, guardiamo il gruppo salire silenzioso. In simile occasione un gruppo di italiani si muoverebbe in cordiale animazione, le facce direbbero commozione di gioia; qui ci si rivela invece l’essenza della provincia francese, una gretta tristezza, una specie di avarizia sentimentale. Il senso di una metafisica avarizia domina la provincia francese: dietro la facciata di vera e propria avarizia che ci offrono i negozi vecchi e oscuri, c’è un’avarizia più profonda e nascosta. Entriamo in un negozio per comprare cartoline e giornali: e, tra franchi svizzeri e franchi francesi, facciamo poi il conto di essere rimasti fregati. Anche questa pennellata ci voleva.
Hugo dunque è nato qui. In città come queste nascono i geni; nascono uomini appassionati e prodighi: in città di avarizia, che in senso non dannunziano si possono dire città del silenzio, nascono uomini di sconfinata generosità. Siciliani, noi pensiamo il Verga a Catania. Nessuno è più lontano di Hugo dallo spirito di una città come Besançon: eppure Hugo forse non si spiegherebbe senza Besançon. Rendiamo ad Hugo, nella sua città, il nostro piccolo omaggio. Entriamo nella libreria che fa angolo con la piazza dell’Hôtel de Ville e compriamo l’opera sua che ancora non conosciamo, un libro da mettere in tasca, Napoléon le petit. In viaggio, cominciamo a leggere. Appassionati lettori di Hugo dai quattordici ai vent’anni, è da circa quindici anni che non leggiamo una pagina sua. È un pensiero che ci dà un certo rimorso. Abbiamo letto tutti i libri che gli italiani A. e B. e C. sono venuti pubblicando, di quei libri non restano che alcune schedule e qualche povero ricordo: e non abbiamo riletto una pagina di Hugo. Dieci anni fa avremmo dato chi sa che cosa per una pagina di Napoleone il piccolo, per una di queste pagine di generosa collera, di implacabile denuncia. Dieci, dodici anni addietro, frasi come questa ci avrebbero fatto piangere di gioia e d’ira, l’avremmo gridata a voce alta in casa, ripetuta agli amici: «Adesso, tutti coloro che portano una toga, una sciarpa o una divisa, tutti coloro che servono un tale uomo, sappiano che, se si credono agenti di un potere, si ingannano. Sono i compagni di un bandito. Dopo il 28 ottobre, non vi sono in Italia funzionari; non vi sono che complici». Al posto di «2 dicembre» e di «Francia» noi abbiamo messo «28 ottobre» e «Italia». È un gioco che continuiamo con la lettura. Ecco che ci siamo imbattuti nell’opera per noi più generosa di Hugo. Dice: «Noi che lo combattiamo siamo gli eterni nemici dell’ordine». Siamo stati anche noi nemici dell’ordine. La libertà di stampa: «Se in Francia per due giorni soltanto nevicassero giornali il mattino del terzo non si saprebbe più dove Luigi Bonaparte è passato». Gli atteggiamenti cesarei del dittatore: «La caricatura comincia a deformare il profilo di Cesare». E così via, fino a più attuali risonanze: «Oggi, regnando il partito dei preti, il maestro di scuola… volete sapere in che modo si fa funzionare l’umile e grande magistrato, il maestro di scuola? Il maestro di scuola serve messa, canta in chiesa, suona vespro, allinea le sedie, rinnova i mazzi di fiori davanti al sacro cuore, lucida i candelieri dell’altare, spolvera il tabernacolo, piega i piviali e le pianete, tiene in ordine i lini della sacrestia, mette olio nelle lampade, batte il cuscino del confessionale, scopa la chiesa e un poco il presbiterio: il tempo che gli resta può – a patto di non pronunciare nessuno dei tre nomi diabolici: Patria, Repubblica, Libertà – impiegarlo, se crede, a far compitare l’abc ai bambini».
Per la lettura abbiamo dimenticato il paesaggio, ma abbiamo avuto il senso di un monotono scorrere di campi verdi e gialli, e qua e là il tocco cupo di un bosco. Ora entriamo in un paese meno difeso e chiuso di Besançon, c’è il sole che lo fa più aperto. Ci viene incontro un monumento, lo aggiriamo fino ad averlo di profilo, l’uomo di bronzo ha un profilo di acuta intelligenza, scendiamo a leggere l’iscrizione. È Diderot. Siamo a Langres, la città natale di Diderot. Tra Hugo e Diderot oggi la Francia splende nel nostro cuore, è la Francia della nostra storia, umana, la Francia dei nostri libri, della nostra ragione. Di solito odiamo i monumenti ma questo di Diderot nella piazza di Langres resta come un bellissimo incontro.
© Eredi Leonardo Sciascia. Published by arrangement with The Italian Literary Agency