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 2020  maggio 16 Sabato calendario

La Palma d’oro a La Dolce Vita, 60 anni fa

Il prossimo 20 maggio ricorre il sessantesimo anniversario dell’assegnazione della Palma d’Oro del Festival di Cannes a La dolce vita di Federico Fellini. La giuria, presieduta da George Simenon, fece una buona scelta. Ancora oggi, il film è considerato un affresco inimitabile della Roma Anni 50 e, più in generale, di alcune caratteristiche eccentriche della natura umana. Se infatti l’ambiente è limitato alla Capitale, e soprattutto alla sua fauna decadente e viziosa, alcuni spunti rivelano i segreti di ciascuno di noi: nel che consiste l’universalità di un’opera, tale da renderla, almeno in alcune sue parti, duratura.
Il film non fu (come fingeva di sostenere il suo creatore) un’improvvisazione capricciosa, anche se la sua sceneggiatura fu sommaria e più volte riveduta in corso d’opera. Fu al contrario il frutto di un lavoro paziente e certosino, che Fellini conduceva da anni sulla Roma dei ricchi e degli aristocratici interrogando attori, giornalisti e fotografi – così scrisse Oriana Fallaci – con la pazienza di un confessore. Il progetto era tanto ambizioso da prevedere la presenza di attori come Barbara Stanwyck, Peter Ustinov, Laurence Olivier e persino la vecchia gloria Maurice Chevalier. Alcuni rinunziarono per precedenti impegni, altri per ragioni di compenso. A parte Anita Ekberg, già famosa a Hollywood, gli altri non erano propriamente dei divi. Tutti comunque, sotto la sapiente regia del Mago, si resero credibili: persino un giovanissimo Celentano, che si esibisce in un rock sfrenato.
LO SPOGLIARELLO
Il soggetto non era né unitario né coerente, cucendo vari episodi collegati solo dalla presenza di Mastroianni, cronista disincantato a caccia di eventi sensazionali. Alcuni furono tratti dalla cronaca: lo spogliarello di Nadia Gray rievoca lo scandalo del Rugantino, dove alcuni protagonisti della jeunesse dorée indussero una ballerina turca a danzare senza reggiseno. E l’orgia finale, con un epilogo in spiaggia, fu ispirata dalla vicenda di Wilma Montesi, quando Piero Piccioni – figlio di un alto esponente democristiano – fu accusato di aver provocato la morte della ragazza durante un festino infame. L’accusa si rivelò una bufala strumentalizzata dalla politica, e il processo finì con un’assoluzione generale.
Il film fu dominato da due personalità: quella del regista, con la sua geniale stravaganza satirica, e quella di Anita Ekberg, con la sua esuberante avvenenza boreale. Tutto il mondo ha visto il suo giunonico incedere nelle fredde acque della fontana di Trevi, da cui derivò l’ossimoro di ghiaccio bollente per la traboccante sensualità che quel corpo sprigionava. Tuttavia non fu questa scena, dove peraltro le forme dell’attrice sembrano confondersi con i marmi tardobarocchi di Pietro Bracci, a suscitare le ire dei moralisti. Fu piuttosto la descrizione spietata di un certo ambiente romano formalmente benpensante e sostanzialmente imputridito. Una descrizione che, nell’estro deformante del regista, includeva omosessuali untuosi e travestiti, aristocratiche decrepite e pedofile, arrivisti ruffiani e ambigui, e tutta una serie di caricature circensi poi consolidate nell’aggettivo di felliniane.

GLI ANATEMI
La Chiesa fulminò il film e il suo autore con gli anatemi più severi, compresi quelli di comunista e ateo. Ma vi fu anche qualche eccezione: i gesuiti, sempre più cauti e avveduti, vi lessero una denuncia della decadenza di una società amorale, e Pasolini definì il film profondamente cattolico. Il Partito Comunista, compiaciuto di tanta fustigazione democratica, giunse ad arruolare Fellini tra i militanti rivoluzionari. In realtà il regista non aveva intenti politici né tantomeno pedagogici, e nella sua esaltazione onirica mirava solo a baloccarsi delle stranezze della nostra imperfetta natura. Come Balzac, monarchico e legittimista, e nondimeno spietato censore di una nobiltà traviata, anche Fellini descrisse quella parte di società viziosa che appassiva nella stravaganza e nella noia. L’Italia ne fu scossa, e sotto questo profilo l’analisi dei gesuiti non fu del tutto arbitraria. Tuttavia l’affresco de La dolce vita è troppo limitato per essere attuale, e oggi a stento arriviamo alla fine di un film che dura tre ore e a tratti è noioso e ripetitivo. Le sue ripugnanti caricature sembrano un sottoprodotto di Brueghel e di James Ensor, senza il tratto artistico del primo e le lugubri allegorie del secondo. Anche i vizi dei protagonisti sono fondamentalmente banali e mediocri, senza le pulsioni blasfeme di Baudelaire o l’erotismo esasperato di George Bataille. Se dunque l’opera ha ancora una sua certa universalità, è perché tutti noi ci riconosciamo in alcuni di quei peccatucci, che sono, appunto, modesti ed emendabili. Ma l’ossessionante insistenza con la quale Fellini ritorna sull’aspetto caricaturale dei burattini di un teatro decrepito, si rivela alla fine inconsistente e stucchevole. Anche ammettendo che la vita sia, come dice Macbeth una favola vuota, piena di furore e di odio, che non significa nulla è proprio questa complessità a renderla tutto tranne che ridicola.

LA MODERNITÀ
E nondimento quelle sequenze, una volta depurate delle loro esagerazioni, ci riportano con nostalgia a una Roma ormai scomparsa, dove in realtà si respirava un’aria di ottimismo e di fiducia. L’Italia, e la sua Capitale, si aprivano alla modernità con un genio operoso quale mai s’era visto dai tempi del Rinascimento. L’Autostrada del Sole, costruita in pochi anni, suscitava l’ammirazione generale con le sue interminabili gallerie e suoi arditi viadotti. L’Arlecchino e il Settebello rivaleggiavano in lusso con l’Orient Express e lo superavano in velocità ed efficienza. Nervi elevava gli impianti sportivi al rango di gioielli architettonici, in vista di un Olimpiade che ancor oggi è ricordata come la più bella della Storia. E infine, per ultima ma non ultima, la nostra produzione industriale rivaleggiava in qualità e quantità con i più blasonati concorrenti europei, mentre la lira insidiava in stabilità il dollaro, dopo aver superato quella della sterlina.

VIA VENETO
La stessa via Veneto, che Fellini ricostruì a Cinecittà, non era soltanto un ricettacolo di divi alcolizzati, di paparazzi invadenti e di attricette accessibili, ma ospitava poeti come Cardarelli e intelligenze sovrane come quella di Ennio Flaiano e di Panfilo Gentile. Quanto ai politici di allora, essi possono oggi sembrarci mummie ingessate nel loro doppiopetto cenerino, ma dobbiamo loro riconoscere la competenza e l’energia che fece risorgere un Paese sconfitto e devastato dalla guerra. Queste nostre virtù sono assopite, ma non sono scomparse. E il ponte di Genova, costruito alla velocità dell’Autostrada del Sole, dimostra che possiamo ancora aspirare a quell’età aurea, benché strapazzata dal genio di Federico Fellini.