Il Messaggero, 15 maggio 2020
I consigli di Tim Parks agli scrittori italiani
Da quasi quarant’anni, Tim Parks vive in Italia. Eppure, non ha ancora ottenuto la cittadinanza. Giornalista e scrittore, commentatore per diverse testate internazionali, il suo sguardo sul Belpaese è sempre originale e pungente. Originario di Manchester, vive a Milano e domani, al fianco del patron di Adelphi, Roberto Calasso, sarà protagonista di uno degli incontri più attesi del Salone di Torino in formato Extra (alle ore 16). Già docente allo Iulm, ha tradotto diversi grandi autori italiani e con i suoi romanzi e saggi, Parks ha raccontato le sfaccettature del Belpaese, dalle tifoserie di calcio – Questa pazza fede (Einaudi, 2002) – all’Italia che viaggia in treno – Coincidenze (Bompiani, 2014). A luglio, uscirà Italian Life: A Modern Fable of Loyalty and Betrayal, affrontando una domanda fatale: Come funziona davvero l’Italia?: «In Italia afferma c’è il timore di dire la cosa sbagliata e venire puniti da chi detiene il potere».
Per il New York Times lei ha raccontato il lockdown da Milano. Com’è andata?
«Qui, ben prima che altrove, si è scatenato il panico ma ogni nazione ha avuto a che fare con una dose d’isteria collettiva. Si è riposto un valore assoluto nel numero delle vittime che ogni giorno venivano comunicate con delle conferenze stampa, costruendo un grande evento mediatico. Ci siamo occupati dei morti ma nessuno ha pensato all’angoscia dei giovani che hanno perso il lavoro e nei prossimi mesi dovremo fare i conti con la paura di uscire di casa e tornare alla vita. Il panico sarà il vero nemico».
Che le sembra, per ora, di questo Salone Extra?
«È un’iniziativa intelligente per ricordare al mondo che il Salone c’è. Certo, il rinvio è una vera mazzata per Torino che ha lottato con i denti per resistere agli assalti degli editori milanesi».
Domani se la vedrà con un fuoriclasse, giusto?
«Roberto Calasso che parla online è un evento. Ho tradotto i suoi libri e visto che Il libro di tutti i libri (Adelphi, 2019) parla della Bibbia, mi sento chiamato in causa. Sa, io sono cresciuto in una famiglia super evangelica, due volte al giorno leggevamo la Bibbia che per me era qualcosa fra un vecchio amico e un fardello. Calasso è un grande narratore, lo sappiamo, ma qui è capace di far emergere anche lati sorprendenti, persino comici e grotteschi, del mondo biblico».
Ci sono troppi festival dell’editoria?
«Sì, ne sono spuntati a dozzine e spesso sono frequentati da persone che sembrano più interessate alla socialità anziché all’acquisto di libri. Siamo onesti, la razza umana sopravvivrebbe serenamente senza leggere ma speriamo che qualcuno continui a farlo».
Lei ha tradotto, fra gli altri, Moravia e Calvino in inglese. Il ruolo degli intellettuali è mutato?
«Agli italiani piace lo scrittore che emette sentenze, che commenta dalle pagine dei giornali sulla propria rubrica, finendo per venire risucchiato dalla televisione, diventando rapidamente parte del sistema. Ad esempio, penso a Enrico Brizzi, Paolo Giordano, Antonio Scurati, scrittori che hanno ottenuto successo, a cui hanno offerto tanto spazio sui giornali. Invece, in Inghilterra, Salman Rushdie non ha una rubrica fissa».
È frutto del desiderio di avere un nuovo sguardo?
«Non direi. Lo scrittore che diventa commentatore fisso molto raramente dice cose inedite e soprattutto, può perdere la grinta. Persino i pezzi di Eugenio Montale sul Corriere non erano paragonabili con la potenza dei suoi versi».
Eccezioni?
«La figura di Elena Ferrante è interessante. Continua nella scelta dell’anonimato che le permette di sottrarsi al meccanismo delle comparsate televisive. Ma era proprio necessario che firmasse quella rubrica sul The Guardian?».
E lei?
«Io ho scelto di scrivere e tradurre ma ho sempre rifiutato una rubrica».
A luglio pubblicherà Italian Life: A Modern Fable of Loyalty and Betrayal, scrivendo di un Paese paradossale fra cultura e famiglia, potere e corruzione. Ce lo spieghi meglio, parla di noi.
«Partendo dal mio vissuto, ho costruito un intreccio in terza persona, affrontando a viso aperto la reputazione di questo paese che sa essere generoso con gli stranieri ma brutale verso chi viene escluso o magari, rifiuta i compromessi. In Italia, il tema della meritocrazia è sempre al centro dei dibattiti, tutti ci auguriamo che le persone giuste vengano scelte ma sovente il dubbio rimane».
Lei si sente italiano?
«Dopo quarant’anni, se fossi costretto ad andare via per le conseguenze della Brexit, significherebbe perdere la mia identità».
È un grande tifoso del Verona, le manca il calcio?
«Certo. È uno sport che scandisce le nostre giornate, è qualcosa d’effimero che fa parte del tessuto narrativo ma possiamo farne a meno. Certo, se fossi un tifoso laziale l’avrei presa malissimo».