La Stampa, 15 maggio 2020
Intervista a Bob Sinclar
Prigioniero della sua torre d’avorio da Dj di strepitoso successo, avvolto in fasci di luce che abbagliano, dinanzi a folle danzanti e su di giri, si era completamente perso di vista che tipo fosse davvero Bob Sinclar, francese, 51 anni, fisico atletico, classificato come un puro prodotto commerciale. Poi, lo scorso 17 marzo, lui, che gira come una trottola a livello planetario (un centinaio di serate all’anno), come tutti i francesi e gran parte degli europei si è ritrovato confinato a Parigi, nel quartiere del Marais, dove abita. Gran parte della giornata la trascorreva nel suo studio di registrazione, a poche centinaia di metri da casa, pieno di gadget assurdi e quella moquette leopardata: Christophe Le Friant (che è il suo vero nome, l’altro è uno pseudonimo scelto in onore di un personaggio di un film di Belmondo) e basta.
Che ha fatto?
«Mi sono detto: finalmente avrò il tempo per classificare in ordine alfabetico i miei 35 mila vinili, collezionati da quando avevo 17 anni. Ma poi d’istinto ho fatto una playlist. E ho pensato: potrei passarla in live su Facebook e Instagram. Sono andato avanti fino al 10 maggio, alla vigilia della fine del confinamento in Francia. Ogni giorno, puntuale, dalle 14 alle 15».
Un successo incredibile e inaspettato, un appuntamento per i giovani (ma non solo) in tutto il mondo…
«Certi video di quei live sono stati scaricati in rete più di dieci milioni di volte. Ma niente è stato calcolato, mi è venuto naturale. Mi sono ritrovato davanti alla telecamera a fare il mio dj set. Ho passato in tutto quasi 900 brani, molti remixati in diretta. Mi dicevo: piace o non piace, che importa. Finalmente mi sentivo libero».
Qualcuno ha riscoperto il Bob Sinclar underground dell’inizio degli anni Novanta, uno dei precursori della «french touch», versione francese dell’house.
«Sinceramente non mi sono fatto tante domande. Pensavo alle radio pirata che ascoltavo da ragazzo negli anni Ottanta e a quello che era il ruolo del dj allora, far scoprire brani e tendenze. In quell’ora di live mi dimenavo, ma spiegavo anche cosa stavamo ascoltando».
Su quale musica ha puntato?
«Generi diversi, ma molto sul funk, che i giovani oggi non conoscono più. E non solo sui soliti Kool & the Gang ma anche i meno scontati The Whispers, il brano And The Beat Goes On. (ndr, lo canta per far capire bene di cosa si tratti)».
Altre chicche?
«Il genere british soul, come i Soul II Soul, Keep On Movin’!. Oppure le canzoni di un artista conosciuto quale Prince, che per me è un eroe, ma quelle un po’ dimenticate, come Erotic city. Ho mixato pure Ma che ho, di Pino Daniele, con quella voce già da rapper, fantastico».
Non poteva mancare «Far l’amore», finita nel film «La grande bellezza».
«Certamente. Il 45 giri di Raffaella Carrà lo utilizzai per la prima volta in una serata a Modena, allo «Snoopy», e il mio amico e dj Nicola Zucchi mi disse: sei pazzo, quella roba lì non va più di moda. E invece… Alla fine registrai la mia versione a Roma con Raffaella, una persona straordinaria».
Non è che punta troppo sul passato?
«Sono nostalgico, ma con la nostalgia creo il mio futuro».
Nei live è riuscito finalmente ad avere una relazione diretta con chi l’ascoltava...
«Mi mandavano messaggi, io rispondevo. Si è creato un rapporto intimo. Credo sia emersa la mia umanità. Oggi il Marais, dove vivo, è un posto figo. Ma ci arrivai da bambino, con i miei genitori, una famiglia modesta, quando era un quartiere malfamato. E io non dimentico mai da dove vengo».
Quando ha messo il piede per la prima volta in una discoteca?
«Tardi, a 18 anni. Prima ero un ragazzo un po’ frustrato, pensavo solo allo sport. Da sempre sono una persona molto normale, ma con un’estrema sensibilità per la musica».
È vero che ha ancora lo stesso peso dei suoi 18 anni?
«Sì, 68 chili. Non ho mai bevuto, né fumato, mai una droga. Gioco tanto a tennis. Tutto questo aiuta».