I conflitti, infine, lungo la dorsale centro-periferia più che nella dicotomia dei secoli scorsi tra capitale e lavoro. E uno spazio (probabilmente) enorme per la sinistra politica per elaborare e provare ad imporre la sua visione della giustizia sociale. Una Terza via, ma non più blairiana: più socialismo che liberalismo. Calderini, 53 anni, torinese, è un intellettuale sui generis. Ingegnere («immediatamente pentito», per sua stessa ammissione), dottorato in economia a Manchester, è stato consulente di molti governi italiani sui temi della ricerca e innovazione tecnologica e sulle inevitabili ricadute sociali, insegna Strategia e Social Innovation alla School of Management del Politecnico lombardo, ha un’amplissima produzione scientifica. È la “contaminazione” la chiave per seguirlo nel suo ragionamento.
Professore, prima della pandemia si rifletteva su un ripensamento del capitalismo liberista che ha contribuito in maniera determinante all’espansione delle diseguaglianze sociali. Sviluppo sostenibile e responsabilità sociale erano stati identificati come i due driver a cui affidare la nuova era. È ancora così? Ambiente e sociale ci porteranno fuori da questa gigantesca crisi?
«Faccio fatica a prevederlo. Siamo tutti sotto shock. Yuval Noah Harari sul Financial Times scrive che il mondo si trasformerà, Michel Houellebecq che tutto resterà come prima. C’è una grande confusione. Questa è una crisi inedita, gestita a livello globale ma senza una governance globale. Nel 1973 sapevamo che la grande crisi energetica aveva avuto un inizio e avrebbe avuto una fine; stesso discorso per il fallimento di Lehman Brothers nel 2008. Quella che stiamo vivendo è la prima crisi centrata sulle persone, per questo presenta una complessità senza precedenti. Si diceva che il potere globale fosse in mano a poche grandi multinazionali. Bene: in questi ultimi mesi non hanno detto nulla. Non pervenute. E vedo un ulteriore grave rischio nel linguaggio narrativo che viene utilizzato, in particolare in Italia: quello dell’economia di guerra».
Lo dicono soprattutto gli industriali.
«Vero. Dietro questa tesi, però, sembra esserci l’idea che prima della pandemia le cose andassero tutte bene, che avessimo una macchina produttiva efficiente e competitiva. E che lì bisogna tornare. Mi pare un approccio bizzarro».
L’economia di guerra mette in campo lo Stato: aiuti, assistenza, arretramento del mercato, nazionalizzazioni. I principi liberisti scardinati in poche settimane.
«Capisco l’emergenza che si porta dietro l’evocazione del bazooka economico e sociale ma, dopo, è necessaria una visione di medio e lungo periodo. Nel 2018 Larry Fink, l’amministratore delegato del fondo Blackrock che controlla un bel po’ della ricchezza mondiale, disse che i problemi ambientali e sociali, con in testa quello della diseguaglianza, li avrebbero affrontati e risolti i capitali privati. Il Forum di Davos celebrò sostanzialmente la medesima narrazione. Si metteva nell’angolo la politica che di fronte alle nuove sfide dello sviluppo sostenibile e responsabile non riusciva ad andare oltre la proposta polverosa di una Green economy non meglio identificata. Dall’altra parte l’affondo dei grandi fondi di investimento nella finanza cosiddetta sostenibile. Il capitalismo finanziario che diceva allo Stato: mi occupo io delle nuove policy . Ecco, siamo arrivati al punto: dove va adesso il pendolo? Verso il privato, e il mercato, oppure verso lo Stato che ora, nella sua parte buona, dalla sanità al welfare, si presenta come l’unico elemento resiliente? Questo è il dilemma».
Dilemma nemmeno recente. Si domandava Carlo Rosselli: «È il liberalismo che si fa socialista, o il socialismo che si fa liberale?». Lei cosa risponde?
«Oggi non ho una risposta ma un indizio. In questi mesi è emersa una cosa fondamentale: il valore dei beni relazionali. La centralità di questi ultimi suggerisce di introdurre nella dicotomia l’economia sociale di mercato nell’impostazione di Karl Polanyi. C’è, qui, una virtuosa connessione tra socialismo e liberalismo».
Andiamo con ordine. Mi dica: cosa intende per “beni relazionali”?
«I beni prodotti dalle relazioni, quelli da cui traiamo un’utilità che non dipende solo dalle caratteristiche oggettive del bene ma dal fatto che ne godiamo insieme ad altri. Beni che non sono strettamente né pubblici né privati, appartengono cioè all’area sociale: fiducia, felicità, amicizia, gratificazione non monetaria, capitale sociale».
È quel che fa il Terzo settore?
«La produzione di beni relazionali avviene attraverso alcuni principi fondanti dell’economia sociale: reciprocità, cooperazione, mutualismo, gratuità. La ricerca intenzionale di soluzioni per i grandi problemi sociali e ambientali può avvenire attraverso forme ibride di imprese o di finanza. Se si vuole costruire una nuova sintesi in chiave liberal-sociale dell’incontro tra Stato e mercato che c’è stato in questa crisi bisogna tener conto di questo terzo elemento: l’economia e l’impresa sociale non tanto come terza via ma come forma di contaminazione virtuosa di Stato e capitalismo».
Non il superamento del capitalismo, ma il capitalismo che si trasforma o si arricchisce di una forte componente etica e sociale?
«Il capitalismo che si trasforma e che prova ad assorbire codici genetici tipici dell’impresa sociale».
E la politica? Quale il ruolo, soprattutto della sinistra in questo ripensamento?
«Questo è lo spazio della sinistra politica. Che deve reimparare a coinvolgere la società e gli individui nel trovare nuove soluzioni a grandi problemi sociali. C’è bisogno di innovazione sociale, cioè di incorporare finalità di impatto positivo sulla società come fine ultimo delle nostre azioni imprenditoriali, tecnologiche, finanziarie. È un approccio che c’era già nel New Labour di Tony Blair che però ha perso rapidamente questa caratteristica. Ma se andiamo un po’ più indietro, è una connotazione che ritroviamo nell’idea di innovazione dal basso di Piero Gobetti o di Carlo Rosselli. Insomma in molti tratti di quel socialismo liberale che è necessario ripensare».