Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  maggio 14 Giovedì calendario

Il metodo Eco per la Rosa

«Il Pendolo nel ’18, ma la Rosa scade nel ’20». Umberto Eco si era messo a parlare dei suoi due primi romanzi durante un incontro che oltre alle conviviali aveva ragioni editoriali molto più trascurabili. L’argomento aveva sottaciute implicazioni. Alla scadenza dei rispettivi contratti con l’amatissima casa editrice originaria (la Bompiani di cui Eco fu negli anni funzionario, direttore editoriale, consulente e fedele autore bestseller) sarebbero entrati nel catalogo della Nave di Teseo, appena varata per sottrarsi alla posizione dominante della Mondadori, acquirente di Rizzoli e quindi – per lo stato di fatto dell’epoca – di Bompiani.
L’epoca era il gennaio del 2016. Oggi come previsto la casa editrice fondata da Umberto Eco acquisisce il romanzo che lo aveva rivelato narratore popolare a tema però erudito e che, uscito nel 1980, aveva anche costituito la sponda culturale dell’allora fiorente “made in Italy” di stilisti, designer e creativi vari da esportazione. L’edizione in arrivo nelle librerie si distingue dalle precedenti per l’aggiunta di un piccolo e curioso apparato di appunti e schizzi preparatori di mano di Eco, con disegni, piantine, ritratti di monaci, mappe del labirinto, diagrammi alfabetici.
Il lettore che nel 1980 apriva Il nome della rosa rimaneva colpito presto da due esercizi di stile: Guglielmo da Baskerville che descrive, individua e addirittura nomina un cavallo che non ha visto mai e Adso che si incanta davanti al portale istoriato della chiesa abbaziale. Ecco il nome, ed ecco la rosa. Il “nome” è l’intelligenza che circoscrive, discrimina, individua; la “rosa” è la figura che affascina e richiede di essere descritta e nominata. La parola, di cui Eco è chiaramente innamorato, è a sua volta innamorata di qualcos’altro e vuole circuirlo, dettagliarlo, conquistarlo. Persino nei saggi e nei libri scientifici di Eco questo “qualcos’altro” non è sempre un’idea astratta: molto spesso ha invece un’apparenza visiva.
L’oraziano ut pictura poësis, la ricerca cioè di una ragionevole traducibilità tra lingua verbale e immagine, è una delle piste che gli studiosi potranno seguire, alla scadenza di quei dieci anni dalla sua scomparsa (nel 2016) in cui, per volontà testamentaria, non si possono dedicare al pensiero e alla scrittura di Eco convegni e seminari. I lettori per diletto possono però già esaminare i disegni preparatori e vedere come il principio agiva nel metodo di lavoro dello scrittore.
La sezione del volume che contiene i disegni è introdotta da Mario Andreose (amico semisecolare di Eco, curatore della sua opera e presidente della casa editrice la Nave di Teseo) che ritorna opportunamente sull’idea echiana di composizione romanzesca come «arredo di un mondo possibile». Vuoi inventare un’abbazia? Devi decidere se sarà romanica o gotica o Coppedè, devi situarla nel tempo (anacronistica o storicamente verosimile?) e nello spazio (Italia, Francia, Marte, montagna, pianura, sott’acqua?); a ogni decisione il “mondo possibile” sarà vincolato un poco di più dalle scelte che avrai compiuto. Disegnare una mappa rende più facile sapere quanto tempo occorre perché due personaggi vadano da qui a là e quante battute di dialogo. Se sei un poeta simbolista, butti i tuoi personaggi in un labirinto senza aver bisogno di descriverlo. Se sei un romanziere a vocazione realista progetterai ogni dettaglio di una biblioteca ideale e però verosimile, che è assieme enciclopedia, mappa del sapere e bussola, ma labirinto mortale per chi non dispone di quel filo di Arianna che è la cultura.
Negli anni, Eco corredò il romanzo di un importante saggio, lePostille a Il nome della rosa, e anche in seguito tornò sul modo in cui l’aveva composto e i modi in cui era stato letto. Concesse a Repubblica anche alcuni dei disegni ora raccolti da Andreose, in particolare la pagina di bloc-notes in cui aveva ritratto i volti dei monaci e deciso i loro nomi. Per Guglielmo da Baskerville aveva in mente un profilo aguzzo che oggi può ricordare lo Zanardi di Andrea Pazienza; Jorge da Burgos è invece una specie di Enzo Bianchi però cattivissimo e torvo.
Fra i disegni più curiosi ci sono quelli con cui Eco ha costellato gli appunti che prendeva sulle tecniche dell’agricoltura e della cucina medievali: come si arava, che falcetti si usavano, come si producevano olio, vino e birra, come erano fatti ciotole e cucchiai, le ricette delle minestre. Per gli studenti, ripetere con parole proprie è l’unica garanzia di aver compreso e mandato a memoria e proprio Eco lo aveva sottolineato nel suo capitale Come si fa una tesi di laurea. I semplici schizzi sui taccuini dell’Associazione Internazionale di Studi Semiotici sembrano svolgere una funzione analoga: Eco si accertava di essersi fatto un’idea di qualcosa con il disegnarlo.
Il nome della rosa (che il suo autore amava meno de l Pendolo di Foucault ) racconta del resto la lotta tra un bibliotecario cieco e un monaco dotato di un paio dei primi occhiali da vista. Ma l’inchiesta di un francescano colto e sagace narrata da un suo assistente semplice e mentalmente quasi inerme è anche la storia di un autore e dei suoi lettori. Con la propria passione per il sapere e per le forme della sua trasmissione Eco ha affascinato persone fra le più lontane dai suoi studi, dalla sua cultura, dai suoi interessi e da abbazie, inquisitori, libri antichi e lingua latina. All’epoca si pensò che Eco, che solo l’anno prima aveva pubblicato l’irto studio di semiotica della narrazione Lector in fabula, avesse scritto Il nome della rosa sulla base di formule fra l’alchemico e il tecnologico affinate in laboratori asettici e magari “col computer”. Quello che prima di ogni altra cosa i suoi disegni mostrano è che si trattava invece di un’opera di bottega, un artigianato smaliziato e assieme genuino.
«Ciò di cui non si può teorizzare, lo si deve narrare», aveva dichiarato Eco al debutto da romanziere. Si può intendere anche come: ciò che non si può astrarre lo si deve raffigurare.