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 2020  maggio 14 Giovedì calendario

La manovrona salva-governo che batte tutti i record

Fantasmagoria della manovra, anzi della manovrona. Nell’immaginario linguistico dei popoli l’accrescitivo coincide spesso con una certa anche comprensibile megalomania. In Italia, da tempo immemorabile, il troppo non stroppia affatto adattandosi perfettamente ai messaggi dei governi, specie quando sono in difficoltà. Ecco dunque, sia pure in forma embrionale, il decretonissimo, record dei record dei decreti legge, ma ancora privo di un nome, e anche questa incertezza battesimale – “Decreto Aprile”, “Decreto Maggio”, “Decreto Rilancio”, “Decreto Domani”, “Decreto Godot” – dice che non tutto finora è filato come doveva. Al momento di andare in stampa, come usava pudicamente nel tempo analogico, sono o meglio sarebbero, per prudenza, 254 articoli, preceduti dalla minacciosa promessa della viceministra cinque stelle Castelli secondo la quale è «stato spaccato il capello di ogni singola norma». Comunque un testo monstre, un mastodonte o malloppone di 495 pagine del tutto «incomprensibile – come diceva il Ragioniere dello Stato Monorchio – anche per gli esperti» (cui non sarà in ogni caso sfuggito l’inesorabile e misteriosofico codicillo a proposito del Comune di Campione d’Italia).
Cinquantacinque, altro primato, risultano i miliardi in ballo, piatto ricco con quel che ne segue, considerato che stavolta non sembrano esserci tagli né tasse, ma aiuti, fondi, contributi, bonus, misure a sostegno e a favore, interventi, indennità, incrementi, incentivi, differimenti, anticipazioni, agevolazioni e quant’altro contribuisce a ingolosire un’immensa platea.
Quest’ultimo, come è ovvio, non nasce oggi. Se proprio occorre inoltrarsi nell’archeologia delle manovre cosiddette “espansive”, è possibile risalire al primo decretone, un complesso di provvedimenti destinati a risollevare l’economia italiana varato nel febbraio del 1965 dal secondo governo organico di centrosinistra, presidente Aldo Moro.
Inutile dire che da allora, in un tripudio di alterazioni generate dal lessico della pubblicità, i successivi decretoni furono presentati come “super- leggi” e poi anche come “decretissimi”. Nel 1970 ne recò uno alle Camere il governo Colombo, che però venne fermato dall’ostruzionismo del Psiup e dei quattro deputati del Manifesto. Dopo di che Colombo lo ripresentò e sempre in nome delle eccezionali condizioni che richiedevano eccezionali misure economiche, lo fece approvare.
Acqua passata, ma fino a un certo punto. Per ottenere maggiore effetto persuasivo, l’iperbole miliardaria, la salvifica mammella cui popolazione poteva attingere, doveva basarsi sulla decretazione d’urgenza. Ora, sostengono gli esperti che i decreti legge sono il postribolo della Repubblica. Vietati dallo Statuto Albertino, introdotti da Mussolini, codificati dai Padri Costituenti per “casi straordinari di necessità e urgenza”, appunto. Questo di oggi, in effetti, sembra rientrare pienamente nella casistica. Ma quanti decretoni, decretissimi o decretonissimi si sono imposti, per dire, dopo la nascita di governi che, nati deboli, cercavano di acquistare il consenso o, sopr attutto, li facevano approvare prima delle elezioni?
Sono calcoli disperanti che spostano la faccenda ai tempi recenti. Durante la Prima Repubblica i decreti legge si potevano reiterare, il più recidivo 29 volte. Ma alla metà degli anni 90 la Corte costituzionale disse basta. Così i governi presero a inzeppare i provvedimenti di ogni ben di dio e a porre la fiducia su di essi: prendere o lasciare. Questo contribuì ad aggravare la logica emergenziale e venne il tempo dei testi omnibus, per cui in uno stesso testo convivevano le materie più varie.
Invano Carlo Azeglio Ciampi provò a contenere il fenomeno. Per tutti i premier, di qualsiasi schieramento, le Finanziarie, le leggi di Stabilità e le manovre divennero una scorciatoia irresistibile, per cui i testi si gonfiavano a dismisura in un garbuglio di rinvii e spasmodiche attese di bollinatura da parte della Ragioneria, segreti negoziati col Quirinale, i cui esperti sono ormai abituati a mettersi le mani tra i capelli.
Nelle castronerie che si ripetono ogni volta con stanca monotonia – il cambio d’orizzonte, i piani di rientro, l’azzeramento del deficit strutturale, l’immancabile promessa di «non lasciare indietro nessuno» – si misura lo scetticismo degli osservatori, ma anche il discredito di una classe politica niente affatto in salute. La recente, ma frequente formula “salvo intese” indica che tutto è ancora in alto mare. L’inconfessabile scommessa è di portare a termine Babele; poi tanto, come diceva Andreotti, tutto si aggiusta.