Corriere della Sera, 14 maggio 2020
Il successo di Boris spiegato da Pannofino
La terza e ultima stagione di Boris era andata in onda su Fox 10 anni fa. Eppure, ora, appena la serie è atterrata su Netflix, è schizzata fra le tre più viste della piattaforma. Ai tempi, era un cult. Paolo Sorrentino, per dire, si prestò a interpretare se stesso in un cameo. Le 42 puntate dai toni dissacranti raccontano il dietro le quinte della fantomatica soap Gli occhi del cuore. Francesco Pannofino è il regista René Ferretti, quello che, per fare in fretta, invita gli attori a fare le scene «alla ca…o di cane».
Pannofino, cos’ha di speciale Boris per funzionare ancora oggi?
«Raccontava cose che sono vere tuttora e dinamiche e gerarchie in cui tutti possono riconoscersi. Come con Coso, lo stagista, o meglio “lo schiavo”, interpretato da Alessandro Tiberi, di cui nessuno ricorda il nome e che tutti chiamano Coso. La serie era scritta benissimo da autori liberi pure di scegliere il cast, senza che nessuno piazzasse raccomandati. Noi attori sappiamo che puoi arrivare su un set e dire: non ci posso credere».
«Non ci posso credere» a che cosa?
«A compagnie così scalcagnate, a tanta sciatteria».
Quali scene la fanno ancora ridere?
«Tutte quelle con l’attrice “cagna maledetta” interpretata da Carolina Crescentini. Devi essere bravissima per fingerti una cagna che prova a essere brava e non ci riesce. Tutti gli attori erano azzeccati: Pietro Sermonti, che fa il protagonista della soap Stanis La Rochelle, Caterina Guzzanti la producer, Paolo Calabresi che fa Biascica… Ricordo la scena mitica con Roberto Herlitzka chiamato, da re del teatro, per il cameo del nonno. Bisognava spiegargli la scena. C’entrava un anello, lui voleva capire che fosse l’anello e nessuno sapeva. Gli dico: che t’importa? Falla a ca…o di cane. Lì nasce il famoso intercalare».
Qualcuno s’è riconosciuto nei personaggi e si è offeso?
«Non sa quanti registi erano fieri, convinti che mi fossi ispirato a loro. Quando parodiammo Margherita Buy in Boris – Il film, che parlava piano piano e non si capiva niente, lei fu tutta contenta. Come Fabrizio Frizzi: in una scena, annunciavo una fiction sul Beato Frediani e dicevo: la parte è già andata a un attore di serie A, è andata a Fabrizio Frizzi. Mi chiamò tutto felice. Era un fan scatenato».
Boris fu la prima serie della Wildside, che poi ha fatto il papa di Paolo Sorrentino, L’amica geniale, 1992. Immaginava che quella piccola società di produzione sarebbe cresciuta tanto?
«Erano giovani e intelligenti e, alla Fox, trovarono una dirigenza che non ebbe paura di contenuti dirompenti e di ascolti, all’inizio, ridicoli».
Vede ancora in giro fiction tirate via, come quelle che Boris metteva alla berlina?
«Un po’ sì. Boris non ha aperto la strada a nuove storie. Restano i generi, le serie ospedaliere, poliziesche… Non tutte brutte. Fare Nero Wolfe mi è piaciuto, era una fiction fatta bene, anche perché veniva dai romanzi di Rex Stout, c’era ciccia».
René Ferretti è il suo primo ruolo importante, perché arriva a quasi 50 anni?
«Lavoravo felicemente fra teatro e doppiaggio da 30 anni, facevo delle parti, ma ero più conosciuto come voce, avendo sempre doppiato Denzel Washington e George Clooney, di cui sono praticamente congiunto. L’idea che si potesse fare il doppiatore e l’attore non era ben vista».
Ha conosciuto Clooney?
«Una volta, mi chiamò per complimentarsi, ma dichiarandosi ubriaco. Conto sul detto “in vino veritas”».
Ora, i set sono fermi, i teatri chiusi. Che progetti ha?
«Ho interrotto la tournée di Mine Vaganti di Ferzan Ozpetek. La ripresa dei set la vedo lontana. Il doppiaggio, invece, sta ripartendo. Ho appena fatto una sessione di speakeraggio. I protocolli prevedono che gli attori registrino separatamente e le voci vengano unite dopo. Succedeva già, ora è la regola, con la sanificazione in mezzo e senza chiacchiere nel salottino di attesa».
Lei ha letto Harry Potter per Audible, il boom degli audiolibri durerà?
«Credo di sì, nel mondo anglosassone stanno crescendo ancora di più. Ho appena letto anche I Medici di Matteo Strukul. Amo leggere ad alta voce e, in più, mi pagano. Non l’avrei mai immaginato quando, da chierichetto, mi facevano leggere gli atti degli apostoli, o al militare, facevo lo speaker al carosello di Piazza di Siena. Alla fine, quello della voce è un mestiere che non mi ha mai abbandonato».