La Stampa, 14 maggio 2020
Perché non vanno imposti codici ai cooperanti
Toh! Si pensa già al protocollo, al capitolato, al decalogo per i cooperanti. Inevitabile soprassalto burocratico dopo fregole, maledizioni indignazioni, parossismi, il birignao del state a casa, sciupa soldi, narcisisti, innescati della vicenda di Silvia Romano. Avverto un disagio immediato. Si mette mano a un universo di sigle e organizzazioni, dove bisogna perlustrare minuscoli e grossi, milionari e fai da te, ideologizzati e puristi, troppi furbi e troppo ingenui. E soprattutto con il rischio che cadano i santi calcinacci del parlare facendo, lo slancio per gli altri, la giornata come fatica, la solidarietà come dogma.
Proprio in Somalia, anni ’90, incontrai uno di questi cooperanti volontari, Annalena Tonelli con il suo ospedale per malati di tubercolosi. Impossibile dimenticare questa missionaria laica, aveva l’anima tutta negli occhi, dalla fenditura tra le rughe lo sguardo balenava come una scintilla. Ricordo il luogo come ora. Una giornata torrida che fiaccava i muscoli, cielo smerigliato, la via battuta da uomini sinistri con un ghigno adesivo sul volto, implacabili, refrattari alla angoscia, nomadi che conoscono le vie del niente. Nelle cittadine si stendevano le file dei piccoli commerci e dei lunghi intrighi della guerra.
Giovinette dai colli sottili ricoprivano il viso con un lembo del manto nero quando uscivano a guardare da attendamenti di stracci scuri: «Annalena?» bastava dire e abbassavo il velo per fare un segno perentorio con il braccio davanti a sé.
Era uno di quei momenti, troppi, in Somalia negli ultimi trent’anni, in cui gli uomini si rinnovavano come l’erba sui prati e le foglie sugli alberi. Vestigia di guerra ovunque, case sbriciolate dalla mitraglia, carcasse di blindati e di auto come arrugginiti animali preistorici, troppe lapidi nuove nei cimiteri ti facevano sussultare e qualcosa dentro di te protestava come se l’oblio che circondava quella tragedia non fosse una legge della natura per lasciarci vivere ma una voluta ingiustizia degli uomini.
Il sanatorio si confondeva tra le case di fango sbiancato, con le piccole tettoie di lamiera. Un grande albero presidiava con la sua ombra l’ambulatorio, un albero deciso a competere anche lui con l’asprezza del sopravvivere. Si levava da un fuoco un fumo azzurrognolo, l’acre odore del legno bruciato, l’odore del legno che brucia male. L’uomo ha urgenza di occasioni. Annalena l’aveva trovata in Kenya, aveva scelto questo continente di sofferenza come obbligo indeclinabile. Era stata cacciata. La Somalia era la sua seconda occasione di carità.
Minacce, saccheggi violenze: dai suoi luoghi stremanti tutti fuggivano, lei restava. adesso si parla di prontuari di rischio, di luoghi da evitare pena il disinteresse dello Stato in caso di guai. Per carità, non racconto la storia di Annalena Tonelli come paragone. Persone come lei che fanno di se stesse un progetto umanitario non sono mancate mai e non mancheranno. Gli uomini sono più buoni di quello che credono, anche se talvolta lo sono meno di quello che dicono.
I malati uscivano dagli edifici intorno, sentivi un continuo pigolio: Annalena, Annalena... C’era se ben ricordo, anche una scuola per la alfabetizzazione dei bambini e un centro nutrizionale. Era attorno a lei un accorrere un accavallarsi uno sgusciare di piccoli tra spalla e spalla per arrivare ad afferrare con le manine il suo vestito. Il suo impegno l’aveva circondata ovunque di un alone di reverenza. C’erano dei banditi, "morian’’ si chiamavano, precursori degli Shabaab, che la minacciavano di morte. Era, quello, un luogo di patimento. Ma in quell’edificio c’era indubbiamente la pace situata come una mandorla al centro di un duro nocciolo di violenza e dolore.
In Somalia Annalena Tonelli era stata sequestrata con altri cooperanti, un incontro casuale con un gruppo di soldati e una sanguinosa sparatoria l’avevano salvata per miracolo. A Mogadiscio, sconvolta dai massacri tra i clan, aveva, Antigone inarrestabile, provveduto alla sepoltura dei cadaveri abbandonati per strada, trovato cibo per gli affamati. La giustiziarono con due colpi alla nuca. I suoi assistiti invano offrirono il sangue per salvarla. Trovarono un biglietto, scritto a mano, sul tavolo della stanza: non parlate di me che non avrebbe senso.
Lo so: non è un modello da proporre per chi deve scrivere un regolamento per render sicura la carità nei mondi in tumulto. Ma è poi possibile farlo? Come si fa a tirare confini a chi compie il dovere della vita, si prodiga, non avanza pretesti per ristare? Puoi prescrivere un codice a chi non fa un passo indietro anche davanti ai poveri più disperanti, entra nei loro tuguri, tocca le piaghe, a chi rifiuta di ripetere come scusa così va il mondo, sei impotente, non puoi far nulla, neanche mobilitare risorse rivoluzioni stravolgimenti umani e politici. Nulla. Bastano l’assicurazione, il corso di sopravvivenza, le lezioncine di geopolitica sui posti pericolosi nel caso chiamate la Farnesina numero verde eccetera eccetera per chi sceglie questo mestiere convinto che la fraternità, la cooperazione sono anche circostanze di amore evidenti palpabili quotidiane, carne sangue sudore milizia e volontà, esempio e audacia? È vero: il secolo dei fanatismi ha reso il mondo più pericoloso, talora impraticabile: il soccorritore non è un samaritano da accogliere ma un simbolo del Male, un nemico da cancellare o da vendere. Bisogna esserne consapevoli quando si decide di partire. O si manda qualcuno.
Ma a salvare la faccia, anche politica, dell’occidente di fronte al montare di questo in fondo non sono i ghirigori delle cancellerie, la cooperazione ufficiale che spesso finisce nelle tasche di presidenti canaglia e in affari con il malaffare che regge quei paesi grazie anche a noi. L’unico occidente accettabile, pulito per milioni di uomini è quello rappresentato da coloro che scelgono la più dura delle milizie fraterne, i poveri assoluti, i lebbrosi delle dittature, i naufraghi dei fanatismi, l’immondizia dei governi.
Le grandi firme della carità internazionale con bilanci milionari, la straripante nomenklatura alla sovietica, i consigli di amministrazione, gli, esperti le task force, il Bene come fatturato, quelle alla sicurezza provvedono da sole. Se andate a Daadab, in Kenya, il più grande campo per rifugiati del mondo, potrete verificarlo. Non c‘è pericolo che qualcuno venga sequestrato: tripli fili spinati, mezzi armati che pattugliano la città dei soccorritori, rigide misure di sicurezza da base militare. I salvati, sono somali, ancora, i relitti di trentanni di catastrofe, li guardano con occhi duri attraverso il filo spinato.