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 2020  maggio 14 Giovedì calendario

Quando comincia l’arte contemporanea?

La domanda persiste: quando comincia l’arte contemporanea? Tralasciamo i vecchi programmi scolastici secondo i quali l’era moderna finirebbe nel 1789, con la Rivoluzione francese e dunque tutto ciò che è accaduto dopo sarebbe già contemporaneo. E superiamo anche impressionismo, postimpressionismo e avanguardie di inizio 900, partendo invece da ciò che ancora influenza il nostro presente: dal secondo dopoguerra o forse anche più di recente con la Pop Art e gli anni ’60. La svolta è lì: cambiano attori, regole, linguaggi e se ne intravedono ancora gli effetti.
Chi si occupa dell’oggi rischia molto perché il materiale è magmatico e in continua evoluzione. Gli ultimi mesi lo dimostrano senza bisogno di aggiungere altro. Eppure periodicamente c’è bisogno di un manuale sul contemporaneo, lo richiedono gli studenti e gli addetti ai lavori, necessità didattica da una parte, chiarezza dagli altri. Fresco di stampa e di traduzione è L’arte contemporanea (Einaudi, pagg. 280, euro 40, il ricco repertorio iconografico giustifica il prezzo), autore Tony Godfrey, inglese che da tempo vive a Manila, e non per nulla il sottotitolo recita «un panorama globale» offrendoci dunque una nuova ipotesi di lettura, ovvero che il contemporaneo cominci dal ridisegnarsi di quella carta geografica dell’arte, dove prima il centro era New York e prima ancora Parigi. Dagli anni ’90, quindi, da quando il fenomeno della parcellizzazione ha imposto una nuova molteplicità. Lettura essenziale.
Il paradigma critico di Godfrey si chiama Ernst Gombrich, autore della più celebre e venduta Storia dell’arte, scritta nel 1950 e revisionata tante volte fino al 1994. Solo nell’ultima versione decise di inserire opere contemporanee, limitandosi però a un dipinto di Lucian Freud e alcune foto di David Hockney, «opere figurative che artisti del XIX secolo quali Manet o Degas non avrebbero fatto fatica a comprendere». Nessuna traccia di Pop, minimalismo, concettuale e dei successivi movimenti: non li capiva né li apprezzava.
Per Gombrich, insomma, l’arte era sostanzialmente bellezza rivelata attraverso la forma e il genio, un valore difficile da definire che ogni tanto torna a galla. Nel frattempo diverse cose sono cambiate, a partire dalla sempre più significativa presenza di artiste donne (nell’edizione 1989 ce n’era una sola, Käthe Kollwitz). Altro fatto: un tempo parlavano gli storici, oggi gli artisti rilasciano interviste, discutono, spiegano il proprio lavoro senza bisogno di mediazioni.
Ammette Godfrey il pregiudizio secondo il quale, fino a un certo punto, il concettuale sarebbe stato più difficile della pittura, ma è già dagli anni ’80 che questo nuovo tipo di arte comincia a farsi notare da un pubblico più ampio perché il sistema lo impone. «Oggi non è possibile definire l’arte a partire dalle forme e dai materiali» quanto piuttosto dall’esperienza del vedere, e per suffragare la teoria non cita un filosofo ma uno dei migliori allenatori di calcio, Jürgen Klopp: non contano solo risultati e vittorie, bensì «il momento in se stesso, il ricordo di essere stati alla partita, di averne fatto parte. Sta tutto lì! Nell’esperienza!». A musei e stadi chiusi, con il web che propone un surrogato emergenziale, l’arte e lo sport attraversano una fase di sospensione, se ne parla tanto ma non si vede né si produce nulla di nuovo, ecco l’urgenza di riaprire tutto e subito.
Gombrich, scomparso ultranovantenne nel 2001, farebbe fatica a ritrovarsi nell’arte di oggi, non più confinata in gallerie e musei, ma proposta prevalentemente in fiere, biennali, aste: «Queste nuove sedi non hanno solo cambiato il modo in cui noi percepiamo l’arte, ma anche il modo in cui gli artisti fanno arte». Mi viene il parallelo con il mondo della musica. Finché si compravano i dischi, l’album era ritenuto la forma ideale proprio come la mostra personale di un artista, mentre ora la regola imperante è pubblicare una nuova canzone su Spotify oppure produrre il lavoro ad hoc per il mercato. A Godfrey (non solo a lui) le fiere non piacciono; saranno divertenti «ma rappresentano il posto peggiore per godere delle opere d’arte... e costituiscono lo spettacolo disgustoso dell’arte ridotta a un gingillo di prestigio che solo i super-ricchi possono permettersi di comprare». Eppure si tratta dell’espressione più contemporanea, presentare un’opera come l’ultimo modello di auto di lusso, effetto sensazionalistico, nessuna sacralità.
E lo studio? Spazio chiuso e inviolabile per i pittori della generazione di Pollock e Rothko, gente che viaggiava raramente e prendeva pochissimi aerei, trasformatosi nella Factory super-cool di Andy Warhol, di recente pressoché smaterializzatosi. Godfrey pubblica la foto dell’artista di Singapore Robert Zhao Renhui in un bar alla tastiera del Mac: quello è il suo studio.
Partendo da tali presupposti, la narrazione di Godfrey principia dalla fine del modernismo e approda al «capitalismo della sorveglianza» con intuizioni che lette oggi ci fanno intuire quello straordinario potere dell’arte che spesso sottovalutiamo. «L’arte contemporanea riecheggia i problemi che affrontiamo nelle nostre vite quotidiane: come dobbiamo comportarci, pensare, a cosa credere». Lo sguardo più penetrante e acuto sul mondo, meglio affidarci all’arte per ottenere le risposte che stiamo faticosamente cercando.