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 2020  maggio 13 Mercoledì calendario

Mastrogiacomo racconta quando i talebani tentarono di convertirlo

Posso capire Silvia Romano, ho vissuto anch’io quell’esperienza. Restare prigioniera di un gruppo di jihadisti, isolata dal mondo per 18 mesi, avvolta dal vuoto, dall’idea che possono ucciderti da un momento all’altro, è più di un incubo. È l’attesa costante di una sentenza che non arriva mai. Quella che decide il tuo destino. Non c’è futuro, c’è solo presente. E il presente è fatto di tante piccole cose, sentimenti, emozioni, pensieri che si accavallano, a cui ti afferri come fossero gli ultimi. Io sono stato nelle mani dei talebani del mullah Dadullah Akund, spietato comandante militare del sudovest dell’Afghanistan, per due settimane. Mi sono sembrate un’eternità. Posso solo immaginare cosa sia stato per Silvia trascorrere un anno e mezzo in quelle condizioni. Ti cambia la vita. E ti cambia lo spirito. Sempre a contatto con una realtà che non è la tua, con persone che non conosci, molto diverse da te, che ti hanno rapito, che ti conservano come un tesoro da scambiare ma che ti disprezzano perché sei un takfir, un miscredente. Di cui in fondo nello stesso tempo hanno paura e nutrono odio. La religione domina l’ambiente che ti circonda, scandisce le tue giornate, segna i 5 momenti della preghiera, quando e come mangi, quando parli, quando dormi, quando ti sposti con i miliziani da una prigione all’altra.
In ogni sequestro dei jihadisti c’è il momento della conversione. È accaduto a Silvia, è accaduto anche a me. Per i talebani, come ogni altro gruppo di credenti wahabiti, interpreti rigorosi del Corano, ottenere l’adesione all’islam da parte di un non musulmano è una vittoria. Molto più di un sequestro e del riscatto che incassano. I soldi spesso sono l’ultimo tassello di un’operazione che punta ad altro. A uno scambio di prigionieri, come nel mio caso, più rilevante da un punto di vista politico. Così, ottenere la conversione di un prigioniero è lo scettro che puoi agitare con i tuoi compagni di battaglia e con il resto del mondo. Nessuno ti obbliga ma ci sono fortissime pressioni psicologiche. La fede religiosa è una cosa seria, soprattutto per chi la sente, la pratica e ne fa un fondamento della propria esistenza.
Una settimana dopo il nostro sequestro, con Sayed Agha, l’autista, che resta in disparte, Ajmal Nasqbandi ed io veniamo portati davanti al vice comandante Alì. Ha un regalo per me, dice. Parla dell’islam, come facciamo con lo sceicco, la guida spirituale con cui affrontiamo le nostre discussioni religiose quotidiane. Imposte. Mi spiega che devo fare una scelta. Sono nato in Pakistan e il fatto che sia, in teoria, per metà musulmano e per metà agnostico, può favorire la mia conversione. Ci sono tutte le premesse perché io possa diventare un buon credente. Lo dice con entusiasmo. Rispondo prudente alle insistenze del vice comandante. Temo una trappola, più che un lavaggio del cervello. Gli chiedo se ritiene giusto che una mia conversione avvenga adesso che mi trovo isolato e in condizione di cattività.
Lui si agita, si avvicina ancora di più, è convinto che la mia disponibilità riveli i primi segni di un cedimento. Insiste ancora. «Per lui», mi traduce Ajmal, «sarebbe un successo enorme. Dice che gli farebbe onore; e che i capi, gli helder, forse sarebbero disposti a lasciarci andare. Li chiamo subito, vediamo cosa rispondono». Sparisce. Al suo posto appare invece il capo, Haji Lalai. «Tieni», dice porgendomi un piccolo registratore, uno di quelli con uno schermo, e delle cuffie per ascoltare. I talebani non hanno libri. C’è solo il Corano. Ma in mezzo al deserto usano questo device senza alcuna connessione internet, per ascoltare, per ore intere, il Libro sacro. Se lo contendono in continuazione. Ci sono incise le 114 sure in arabo. Sullo schermo appare la traduzione inglese. Il comandante mi invita a usarlo e a seguire le scritte che scorrono sul display. Le sentirò per tutto il pomeriggio mentre i giovani miliziani, fucili in mano, fedeli compagni di vita e di battaglia, mi osservano da lontano. Sono incuriositi e affascinati per un regalo che considerano un privilegio.
Ascolterò le sure tante altre volte. Quel registratore mi accompagnerà per gran parte del sequestro. Mi aiuterà a superare i momenti di panico e durante l’angoscia che mi aggrediva pensando che ero a un passo dall’esecuzione di una sentenza, visto che eravamo appena stati condannati a morte. Tutto questo non è bastato a convertirmi. Se lo avessi fatto mi sarebbe sembrato una pura ipocrisia per salvarmi la pelle. Silvia Romano, invece, in 18 mesi avrà avuto tempo e modo di riflettere. Di immergersi nell’islam e di abbracciarlo. C’erano tutte le condizioni per farlo. Se oggi indossa la jilbab, insiste nel portarla, è perché convinta della sua conversione. Ha compiuto la sua scelta. Io ho fatto la mia. E questo ci rende entrambi liberi.