il Fatto Quotidiano, 13 maggio 2020
I soci di Ubi si oppongono solo a parole a Intesa
“Le azioni si pesano, non si contano”. L’adagio di Enrico Cuccia, figlio dell’epoca del più spregiudicato capitalismo di relazione, sopravvive tra le province ricche di Bergamo e Brescia. Ne è una prova l’arrocco che i soci forti di Ubi Banca, riuniti in ben tre patti di sindacato, hanno subito messo in piedi a fronte dell’Ops di Intesa. Fin dal giorno dopo l’annuncio dell’operazione del 17 febbraio, i “pattisti” di Ubi, riuniti nel Comitato azionisti di riferimento, nel Patto dei Mille e nel Sindacato azionisti di Brescia, hanno bocciato sonoramente l’operazione. “Inaccettabile, ostile, non concordata” e soprattutto giudicata non congrua sul prezzo offerto, che pur con un premio del 27% sui valori di Borsa di Ubi, non valorizzava, secondo loro, a sufficienza la banca.
E così la battaglia sul controllo della quarta banca italiana è partita da subito contrastata. Ma, in un mercato normale, se vuoi pesare devi contare le tue munizioni, devi mettere mano al portafoglio. Chi ha più azioni vince. Per i “pattisti” non è così evidentemente. Nessuno si è mosso infatti nelle settimane successive per incrementare la quota di possesso. Dietro i proclami di resistenza non c’è niente. Eppure con il titolo in caduta libera (come tutte le banche, Intesa compresa) per effetto della pandemia, l’occasione era ghiotta per andare sul mercato e comprare azioni. Tra l’altro mediando così i valori di carico, dato che per molti dei “pattisti”, le azioni Ubi sono in carico a prezzi molto superiori a quelli attuali.
Le ultime comunicazioni vedono il patto di sindacato più consistente, il Car, fermo al 18,9%. La parte del Leone la fanno le due Fondazioni, la Cassa di risparmio di Cuneo, ferma da tempo con il suo 5,91% del capitale; la Fondazione del Monte di Lombardia con il 4,95%. Poi, le famiglie imprenditoriali: Bosatelli che possiede il 2,97% del capitale cui si accodano i Radici, gli Andreoletti, i Pilenga, gli armaioli Beretta e Bombassei tutti con circa l’1% del capitale. A loro si è aggiunta Cattolica assicurazioni, anch’essa con un 1%.
Pure il Sindacato azionisti di Ubi (la sponda più bresciana) non ha mosso posizioni ed è fermo al 7,7% del capitale. Infine il piccolo Patto dei Mille, con l’1,6%. Così, la resistenza passiva all’affondo di Intesa può contare su un 28% del capitale, con le famiglie e le Fondazioni che hanno sindacato le quote. Un modo feudale per esercitare il potere di controllo sostanziale sulla banca, mettendo ciascuno pochi quattrini, il minimo sindacale. Investimenti di potere che non hanno dato grandi ritorni finora.
Basti vedere i bilanci della Fondazione Cr Cuneo. Quel 5,91% di azioni Ubi sono in carico a 3,73 euro ciascuna, per un valore di 253,9 milioni di euro. In pancia alla Fondazione c’è oggi una bella minusvalenza potenziale di ben 80 milioni. Per ora un flop fare i grandi soci di Ubi. Certo mitigata dai dividendi incassati che, dal 2015, ammontano a 23 milioni. Ma il titolo Ubi dovrebbe salire di quasi il 50% per portare in pareggio l’investimento. La Fondazione, poi, con il titolo pare giocarci: nei giorni scorsi ha comprato a più riprese opzioni su Ubi che avrebbero chiuso con perdite dato che il titolo è sceso anziché salire. Normale operatività dicono. Non sfugge però il dato che 30 milioni di azioni Ubi, la metà del pacchetto complessivo sono in gestione a Fondaco Sgr per “dinamizzare l’investimento”. Stessa sorte per la Fondazione del Monte che ha il suo investimento in Ubi in carico a oltre 3,8 euro. Perdite pesanti per ora virtuali anche in questo caso. E non c’è dubbio che molti dei pattisti abbiano scommesso sul controllo blindando i titoli, ma siano in perdita ai prezzi attuali.
Si dirà che Ubi ha tutte le carte in regola per recuperare terreno in Borsa e giustificare il niet a Messina. E proprio sotto Ops e in era Covid, la banca ha sfornato una buona trimestrale. Utile più che raddoppiato a 96 milioni, solido stato patrimoniale e crediti malati in discesa. Tutto vero, ma la gestione del credito ha visto scendere del 9% in 12 mesi il margine d’interesse. Una caduta compensata dalle commissioni in crescita e da guadagni da trading buoni che però sono una tantum. Resta poi il divario di redditività storica tra Ubi e Intesa: il Roe di Ubi è la metà di quello prodotto da Intesa. Quanto alla qualità del credito, si riconferma invece un antico nodo strutturale mai risolto. Il tasso di copertura dei crediti malati si mantiene basso al 39,5%; dieci punti percentuali sotto la media del sistema e 14 punti sotto i livelli cui Intesa copre i crediti deteriorati.
Ubi da sempre sostiene che l’anomalia è dovuta al maggior grado di garanzie immobiliari rispetto alle altre banche. Sarà. Resta l’eccezionalità. O in Ubi sono stati prudenti e accorti, facendosi scucire dai debitori molte garanzie e le altre banche (tutte) sono state improvvide, oppure qualcosa non torna. Se Ubi adeguasse i suoi tassi di accantonamento alle altre banche, ecco che dovrebbe svalutare i deteriorati di circa 700 milioni di euro. Un peso tenuto a bada nei bilanci che però vale due volte l’intero utile del 2019. Un enigma. Banca solida perché capace o perché le pulizie sono state fatte a metà?