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 2020  maggio 13 Mercoledì calendario

Ritratto al veleno di Attilio Fontana

Per quanti segni di sofferenza rechi il suo scarno viso, Attilio Fontana è un sughero che ancora galleggia, nonostante i molti disastri che assediano la sua Regione, e forse anche il suo sonno, vista la quantità di bare che da tre mesi di pandemia fuori controllo transitano, nottetempo, dentro i telegiornali, prima della buonanotte. Errori, improvvisazione, confusione. Corto circuito tra i reparti ospedalieri assediati dai malati, e smaltimento nelle Residenze per anziani. Molta impreparazione, tamponi insufficienti, nessun controllo digitale dell’infezione. Zone rosse chiuse con ritardo. Naufragio clamoroso della pluripremiata Sanità Lombarda, “quella che il mondo ci invidia”, in verità costruita sulla sabbia che il Celeste Formigoni, signore illibato della cattolicissima Comunione e liberazione, portava alla fine di ogni estate passata a scroccare vacanze sarde, bagni e aragoste. Tutto sul conto spese della sanità privata, finanziata con soldi pubblici a fin di bene, il suo.
Chiaro che a forza di tagliare letti e reparti, il castello longobardo dei nuovi feudatari non poteva reggere l’emergenza e infatti la sabbia è scivolata negli ingranaggi. Ma quando gli Ordini dei medici della Lombardia – chirurghi, primari, medici di base – hanno denunciato i molti errori della Regione, Attilio Fontana invece di cospargersi la mascherina di cenere, fa sapere che quel documento tecnico in realtà era “propaganda politica”, cioè a dire comunista, non di leale collaborazione, come lui si aspettava “in un frangente tanto drammatico”. Ne era dispiaciutissimo, anzi così tanto addolorato da non degnarsi di rispondere. Un sughero.
Nell’epopea leghista questo eccellente avvocato di Varese, 68 anni appena compiuti, è il classico uomo di mezzo. Discende in linea diretta dall’ex organista di chiesa Bobo Maroni, salito fino in cima al potere dello Stato centralista, per poi precipitare in fondo alle cronache locali, insieme con una sua ex segretaria e certi viaggi in conto spese, peccato di entità veniale, ma di patetica sostanza. E discende, in seconda istanza, da Bossi Umberto, il fondatore, che innalzò i primi accampamenti fuori dalle mura di Varese, da dove dichiarò guerra a Roma ladrona, e disse: “Vengo dalla gavetta, sono uomo di strada e viaggio in groppa come i miei avi con la carne cruda tra il sedere e il cavallo”. E poi: “Siamo un Winchester con le pallottole”. Solo che dopo tante sparatorie a salve e un brutto malanno, anche Bossi è finito nella polvere con tutta la famiglia al seguito, come un qualunque democristiano: canottiere, villetta e figli pagati dal partito, che in quegli ultimi frangenti ha fatto sparire un paio di tesorieri e un tesoro da 49 milioni tondi.
Se l’epica appena trascorsa fosse un film intitolato Il buono, il brutto, il cattivo, Attilio Fontana starebbe proprio nel mezzo, tra Luca Zaia, governatore del Veneto esperto di buon senso, e Matteo Salvini, che ogni notte addenta quello che trova, compresa la povera Silvia Romano colpevole di non essersi fatta ammazzare dai tagliagole somali.
Fontana viene da una famiglia benestante, padre medico, madre dentista, villa con giardino, gite al lago, buone scuole, una sbandata a destra da ragazzo, poi liberale, infine “leghista prima dei leghisti” o così oggi la racconta. Nel frattempo: una moglie, due figli, una Porsche. Inseparabile dal suo amico Andrea Mascetti, avvocato anche lui, ex Movimento sociale oggi Fondazione Cariplo, e Giancarlo Giorgetti, che passa per la testa fine della Lega, lo stratega che al Meeting di Rimini, proprio parlando di Sanità, proclamava: “Ma chi va più dai medici di base? Appartengono al passato”. Era agosto, cinque mesi prima della pandemia e dei medici di base lasciati senza linee guida.
A forza di evocare radici celtiche, Insubri e altre scempiaggini, Fontana finisce sindaco di Induno, anno 1995, poi il salto in Regione Lombardia, anno 2000, tiepido presidente di Giunta, fino a quando Bossi e Maroni gli chiedono il sacrificio di tornare a Varese per difendere la culla della Lega, terremotata da qualche scandalo di troppo.
Lui galleggiando va. E vince. Addirittura per due mandati, dal 2006 al 2016, dove governa senza alzare mai polvere, senza sbagliare i bilanci, magari con qualche convegno di troppo sulla Russia di Putin, tipo: “Famiglia, tradizione, identità. La sfida russa al mondialismo”. E anche qualche accordo commerciale dove spunta sempre il suo amico Gianluca Savoini, il futuro pollo dell’Hotel Metropol di Mosca dove nascerà il Russiagate, scandalo ancora inconcluso.
Fino a quando un altro contrattempo rispedisce Fontana in cima alla Lombardia. Stavolta in rappresentanza di tutta la Destra, compreso Berlusconi, che lo accoglie, ma senza barba, mi raccomando, perché all’ex Cavaliere non gli garba. Lui se l’è già tagliata, ci sa fare col tempismo, e per vincere gli basta promettere di rimpatriare 100 mila immigrati appena eletto: “Dobbiamo decidere – dice a Radio Padania – se la nostra etnia, se la nostra razza bianca, se la nostra società deve continuare a esistere o deve essere cancellata”. Travolto da polemiche, dichiara che “razza bianca è stato un lapsus”, ma intanto gli elettori, che non sanno cosa voglia dire lapsus, lo issano entusiasti in cima alle urne.
Purtroppo per il sughero di Varese, che avrebbe continuato a galleggiare tra appalti e identità antirisorgimentale, è arrivata l’onda anomala del Covid-19, insieme con il naufragio anche psicologico di Salvini sulle pupe del Papeete. Sapendo poco o nulla di emergenza, ha sbagliato i consulenti scientifici, si è fidato dei sorrisi di Giulio Gallera, l’assessore alla Sanità, e addirittura di Guido Bertolaso richiamato dal Sudafrica per riprendere il filo dei suoi trionfi. Risultato: 80 mila contagi, 15 mila morti, la metà di tutta Italia. Un record. Una voragine per lui, per la Lega, per una intera macchina di governo selezionata nei vent’anni di potere, di raccomandazioni e ora di crisantemi.