La Stampa, 13 maggio 2020
Come si vive in Somalia
Per capire come si vive in Somalia è necessario, ahimè, cominciare dai morti. In quasi tutto c’è una storia terribile da raccontare. Ti mette pena il mestiere di essere uno che guarda, ti senti umiliato, debole. Il Paese è pieno di fantasmi. Quelli di Merka per esempio. Ci si affaccia sul mare come se spalancassi le persiane sulla primavera, convalescenti da una lunga malattia che si chiama boscaglia, steppa, solitudine. Trentanni fa ci arrivai a passo d’uomo, avanzando sghembi, asmatici, le gomme dell’auto che prendevano goffamente a pedate i sassi e le buche di una strada ridotta a mulattiera in cui era difficile riconoscere una pelle di asfalto.
Andavi così piano che ti superavano, sbucate dal nulla, queste donne sempre eguali, come innumerevoli sorelle, con la stessa tonaca colorata, la faccia affaticata, con lo stesso carico sulla testa o sulle reni. Ogni tanto dalla boscaglia qualche uomo che, muto e superbo, le incrociava con il bastone sulla spalla. Indifferenti al sole che arde sulla polvere della strada.
Respiri l’odore del mare anche se al largo si stendono pennellate di luce torbida sull’oceano infuriato e tinto di blu cobalto. Ti guariscono le voci dei fanciulli che si gettano in acqua e dei pescatori che lottano per spingere al largo le loro renitenti piroghe.
Sepolti sotto la sabbia
Trentanni fa: guerra e carestia, l’ethos delle faide tribali tra i clan in cui è divisa la società somala che si ramificano con un andamento di epidemia, di alluvione, senza logica.
Eppure la spiaggia sembrava un miracolo protetto dalle sue dune come un bozzolo di vetro, incendiate da una luce impassibile e chiara. La sabbia però era smossa, e non pareva l’azione della risacca. Piuttosto le tracce delle contorsioni di un grande animale. Ti saliva dentro una inquietudine strana come se quella bellezza fosse contagiata, infetta.
Domandai. I morti di fame l’avevano sepolti lì. Esausti, indeboliti, gli abitanti della città non avevano la forza di raspare la terra dura, inaridita, dimenticata dagli dei. La sabbia aiutava il loro sforzo pietoso, a un palmo appena sotto i piedi erano sepolti uomini donne bambini. Bastava grattare e uscivano mani che sembravano implorare aiuto.
La carestia somala: non per le piogge scarse o il raccolto divorato dalle locuste, la carestia della guerra. La dissoluzione del regime di uno dei tanti tiranni africani, Siad Barre, e la convulsa mischia dei criminali capi dei clan che volevano spartirsi la eredità aveva creato la fame. E’ qui che ho capito che non sempre la guerra rende il mondo comprensibile come un quadro in bianco e nero.
Gli affamati
A Baidoa, nel South West, ho incontrato gli affamati. Una moltitudine color della polvere che si incolla alla pelle si allineava sotto la minaccia di pesanti bastoni degli uomini del clan. Poi sfiorando indifferenti le persone in attesa, a tutta velocità, dalla pista sbucarono alcuni camion con le razioni inviate dalla carità internazionale. Seduti sui sacchi un gruppo di armati urla ordini incomprensibili nel frastuono dei motori. Parte una raffica di mitra in aria, nel caos bambini cadono con la faccia nella polvere calpestati senza ragione.
Per due ore sotto il sole di piombo in silenzio aspettano 400 grammi di latte condensato, 750 grammi di fiocchi d’aveva e farina. È molto meno delle calorie fissate dalle organizzazioni internazionali. La differenza l’hanno requisita i capi clan che la rivenderanno a peso d’oro. Nessuno si lamenta, nessuno urla. Fatalismo o sottomissione? Qualche donna abbozza un sorriso, ragazzini si aggrappano alle mani bisbigliando ringraziamenti. La Somalia, un luogo dove per praticare la carità dovevi pagare il pizzo.
Un conflitto senza pause
Sullo sfondo della storia di Silvia Romano c’è tutto questo. Una terra dove il tempo non ha stagioni, i mesi non hanno distacco di colori e di clima e il calendario è pieno di nomi che non vogliono dire nulla. Sempre in divenire, sul punto di essere trasformata in qualcos’altro ma sempre traboccante di tragedia. Abbiamo visto morire Mogadiscio, diventare una città di grande e semplice desolazione, i suoi poveri ruderi con la monumentalità della morte e nello stesso tempo il suo idilliaco colore. Qui non comprendi nulla se non rammenti che cammina, ama, uccide, crea, lavora, prega una specie umana che da trentanni ha saputo sopravvivere a una guerra senza pause. Sì l’uomo è forte se può durare a dittatori, banditi, «war lord», trafficanti, pirati, islamisti, Shabaab. Gli antropologi dovranno dirci come hanno fatto, decifrarne il miracolo. Anche quello di coloro che oggi tentano di ricostruire una società e una vita normale. Perché anche questi ci sono, e non sono pochi, molti ritornati dall’esilio armati di speranza, altri, giovani che non sono mai andati via. Hanno studiato, parlano lingue straniere. Non comprerebbero mai un kalashnikov al mercato di Mogadiscio. Ma nessuno si occupa di loro, li aiuta. Gli americani son qui per bombardare i terroristi, per il petrolio e l’uranio, gli islamisti per creare il califfato africano, i turchi e i qatarini per spartirsi influenza geopolitica e l’affare della ricostruzione.
La violenza ossessiva
Se chiedi ai somali, anche ai bambini, che cosa è la guerra, ebbene, preparatevi ad ascoltare a lungo, ne sanno di cose, l’arsenale dei racconti è senza fine. Ma provate a far loro la domanda che cosa è la pace: vi guarderanno in silenzio, imbarazzati come scolari colti in fallo dal maestro. Non sanno cosa dire.
La guerra contro gli Shabaab non ha nulla di ardimentoso od eroico, nulla che possa riscattarla. Solo violenza ossessiva crudele, irreversibile, ti domina come il paesaggio dove si svolge, pallida terra bruciata che si alza nel vento in polvere di sabbia sottile. Un pallido ineguale mondo disseccato dove avanzi come sul letto di un mare prosciugato da ere incalcolabili. Nei villaggi dove le rozze case formano una via dove tutto è nuda terra salvo una porta, una finestra dal telaio rozzo, l’umanità fa grumo all’ombra. Questi villaggi non crollano, durano secoli mentre marmi e pietre vacillano. Un altro miracolo. Appartengono agli Shabaab o sono del governo? Anche qui c’è un mondo del giorno e uno della notte che ha padroni diversi, che si scambiano i ruoli quando la luce incendia l’orizzonte. Lo sa bene Silvia nelle sue penose peregrinazioni con i carcerieri.
Le lezioni all’Occidente
I somali hanno inflitto quattro aspre lezioni all’Occidente. Ci hanno insegnato la nostra vulnerabilità, o meglio la superiorità degli istinti vitali del debole sulle velleità dei più forti di imporre un «nuovo ordine internazionale» anche negli angoli più remoti del pianeta. Se avessimo riflettuto sul disastro di «Restore hope» e sulla fuga degli americani alla fine del 1992 avremmo evitato altre sconfitte. E poi qui l’aiuto internazionale è diventato, per la prima volta, un’arma di guerra, perché chi controlla con la forza la distribuzione del cibo tiene in pugno gli uomini. Noi discepoli orgogliosi dello Stato nazione abbiamo, stupefatti, visto nascere una nazione senza Stato. Ora gli Shabaab, pirati e trafficanti, guerrieri di dio e di mafia, esperti di racket e signori della savana che dura lezione infliggeranno alla nostra pavida indifferenza?