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 2020  maggio 10 Domenica calendario

Intervista a Joyce Carol Oates su "Ho fatto la spia" (La nave di Teseo)

Joyce Carol Oates è in quarantena in una grande casa su tre acri di terreno a Princeton, nel New Jersey, dove vive da molti anni: «Sono qui con i miei due gatti, molti amici e vicini di casa con cui riesco a comunicare spesso» dice spiegando di non risentire troppo del lockdown causato dalla pandemia che ha investito anche gli Stati Uniti. Il mondo social, che frequenta volentieri, è per lei un buon punto di osservazione di ciò che accade, anche per quanto riguarda lo stato della cultura. «Spesso — dice — mi viene chiesto quale sarà il futuro della parola scritta: sono ottimista sul fatto che ci sarà sempre una “parola scritta”. E mi conferma questa convinzione anche il fatto che in questi giorni di isolamento forzato molte persone stiano leggendo libri, compresi i classici, e i club della lettura online siamo molto affollati. Io stessa sto leggendo Guerra e pace con un club del libro, su Twitter. In queste condizioni la comunità creata da persone coinvolte nelle stesse esperienze artistiche può essere molto arricchente».

Esile e pallida, 82 anni portati con aristocratica eleganza, più volte favorita degli scommettitori tra i possibili vincitori del Nobel per la Letteratura, la scrittrice americana che nei suoi romanzi ha raccontato miti come Marilyn Monroe (Blonde), scandali presidenziali (Acqua nera, sull’incidente che coinvolse il senatore Ted Kennedy insieme alla segretaria Mary Jo Kopechne: l’auto finì in acqua, la donna morì, lui si salvò ma le sue aspirazioni alla presidenza vennero stroncate) fa sapere attraverso il suo agente di non voler parlare di politica, ma il suo convinto e veemente antitrumpismo è noto a chiunque frequenti Twitter, dove si rifiuta di scrivere il nome del presidente americano per esteso, preferendogli «T***p», come se fosse una parolaccia.

Maestra della short story, nella sua vasta ed eclettica opera narrativa (in parte scritta anche sotto pseudonimo) che comprende romanzi, saggi, poesia, JCO si è calata con la stessa profondità nella mente di personaggi molto diversi tra loro: killer, accademici, giovanissime (per esempio Una brava ragazza che La nave di Teseo ha appena ripubblicato in ebook), alternando il genere fantastico, «neogotico», a un realismo sociale che smaschera impietosamente l’ipocrisia e la violenza della vita borghese, dei rapporti tra i sessi, dei legami familiari, in particolare quello tra madri — spesso nevrotiche, infelici, sottomesse — e figlie che continuano vanamente a cercare il loro amore.

Oates ha scritto oltre cento libri che possono essere osservati come frammenti di un unico, grande affresco dell’America contemporanea, riuscendo sempre a dribblare ogni impressione di ripetitività. Scorre questo flusso anche in Ho fatto la spia, il nuovo romanzo che esce in questi giorni dalla Nave di Teseo, nella traduzione di Carlo Prosperi. Anche qui Joyce Carol Oates affonda, di nuovo, le unghie nella carne viva nella famiglia (e della società americana) mettendone in luce le ferite mai rimarginate.

Ho fatto la spia è la storia di una dodicenne, Violet Rue Kerrigan, ultima di sette figli di una famiglia irlandese, cattolica e proletaria, nella cittadina di Niagara. È la preferita del padre, o almeno lo è stata «prima che tra noi accadesse qualcosa di terribile che sto ancora cercando di riparare», dice nelle prime pagine di questo romanzo che alterna la prima persona della protagonista, con la seconda persona, in uno sdoppiamento del punto di vista che offre al lettore la possibilità di vedere Violet come lei stessa si vede. Una traditrice, un «ratto». Rat viene chiamato nello slang americano lo spione, rat diventa Violet quando una sera i due fratelli maggiori, ubriachi, investono e poi uccidono con una mazza da baseball un adolescente nero. È lei a scoprirli mentre di notte rientrano a casa e cercano di lavarsi le mani e gli abiti, di nascondere la mazza usata per uccidere, seppellendola in giardino. È lei che uno dei due fratelli spinge (per caso?) sui gradini ghiacciati della casa facendole battere la testa. È lei a mandarli, quasi inconsapevolmente, in prigione («Avevo dodici anni. Fu la mattina del mio ultimo giorno d’infanzia»). Dopo questo gesto non riconquisterà più l’amore dei genitori, verrà mandata a vivere lontano, da una zia, diventando una di quelle adolescenti introverse e vulnerabili, facili vittime di molestatori. Eppure quella di Violet è anche una storia di resistenza, una lotta interiore tra ciò che è e ciò che gli altri vorrebbero che fosse. Una sfida che vincerà pagando un prezzo alto. Joyce Carol Oates la costruisce in un meccanismo narrativo che commuove e tiene in sospeso.

Machismo, razzismo, disuguaglianza sociale sono temi che caratterizzano gran parte del suo lavoro, su cui scrive da circa quarant’anni. Sono ancora questi i grandi temi della società contemporanea, in particolare della società americana?

«Direi di sì. Nel libro c’è anche la tensione tra la vita ideale in una comunità tenuta insieme da una certa visione etica e la vita privata e personale delle famiglie, spesso legate a una cultura tribale che privilegia la lealtà al gruppo rispetto al comportamento morale. La protagonista del romanzo, Violet, non vuole fare la spia, non vuole rivelare la colpa dei suoi fratelli, non vuole distruggere la sua famiglia ma, ciò nonostante, sente un forte bisogno di dire la verità».

Il razzismo strisciante nella comunità, il senso di superiorità dei bianchi che, in certi casi, è molto vicino alle teorie neonaziste (l’insegnante di matematica che molesta Violet), è il clima sociale in cui si svolge l’azione del romanzo. Il nucleo della storia risale al 2003 ma ci sono echi di fatti più recenti, come l’omicidio, nel 2012 in Florida, del diciassettenne Trayvon Martin. E lei ha vissuto a Detroit nel 1967 durante le rivolte, esperienza che ha riversato nel romanzo «Loro. Un’epopea americana». Qual è stata la principale ispirazione per «Ho fatto la spia»?

«In realtà credo che potrebbero esserci state ispirazioni diverse, cumulative. Eventi come il pestaggio bianco-razzista di un ragazzo nero che racconto nel romanzo non è purtroppo raro negli Stati Uniti. Ho vissuto i disordini di Detroit del 1967 e non ho dimenticato l’instabilità dell’epoca, e la necessità di riunire le razze, non di creare divisioni. Nel romanzo, tuttavia, volevo anche suggerire che una volta che le persone si conoscono, la discriminazione e il bigottismo hanno meno probabilità di prosperare».

A Violet viene detto che i suoi genitori non la perdoneranno mai per «essere uscita dalla famiglia» quando denuncia i suoi fratelli. Rimanere fedeli alla famiglia è più importante che rimanere fedeli alla verità. Il sociologo Edward C. Banfield nel ’58 lo definì «familismo amorale». È pure il principio su cui si basa ogni forma di mafia.

«Sì, la maggior parte delle famiglie esige lealtà, non solo le famiglie del crimine. È necessario un forte senso di identità e uno scopo morale per opporsi alla propria famiglia. È un soggetto che mi interessa da molto tempo e infatti Ho fatto la spia era in origine un racconto intitolato “Riccioli rossi”, scritto 10 anni prima (uscito nella raccolta Tu non mi conosci, Oscar Mondadori, 2016, ndr)».

Come vede la situazione sociale oggi negli Stati Uniti?

«Di certo in America, al momento, siamo confusi da un governo di destra che non rispetta l’etica della democrazia, ma soltanto la lealtà verso un leader. Detto questo la vita americana può essere molto diversa da regione a regione. Il senso morale di una comunità dipende molto da dove si vive. In modo sempre più drammatico, abbiamo comunità “blu” (blu è il colore del partito democratico, ndr), spesso in aree urbane con università e aziende benestanti al loro centro dove le persone tendono a essere bene istruite, e comunità “rosse” (dal colore dei repubblicani, ndr) che probabilmente si trovano in piccole città o aree rurali nel sud, nel Midwest e nell’ovest. In queste comunità gli immigrati e le persone di colore sono spesso trattati male e la situazione è molto più pericolosa».

Leggendo i suoi libri molti si sono fatti l’idea che il sogno americano sia diventato un incubo. O forse non è mai realmente esistito?

«Il sogno americano è sempre stato legato all’indipendenza personale e alla possibilità di migliorare sé stessi e dipende principalmente da una buona istruzione pubblica. Per molti americani si è effettivamente realizzato — questo è un Paese molto benestante — ma per altri, soprattutto al momento attuale, questo sogno non è raggiungibile».

Qual è per lei il rapporto tra la scrittura e l’autobiografia?

«Ho scritto alcuni saggi di memorie ma buona parte della mia vita personale va comunque nella mia narrativa, il che è vero per la maggior parte degli scrittori».

«Scrivere narrativa è difficile quando la vita reale sembra molto più importante» ha detto tempo fa. Il mondo intero è stato devastato dall’emergenza Covid-19. Come ha influenzato la sua vita questa situazione?

«Diciamo che l’influenza maggiore l’ha avuta sulle lezioni che tengo. Attualmente sto insegnando due corsi su Zoom per la Princeton University & Rutgers University e mi sono resa conto che l’utilizzo di un mezzo online intensifica l’esperienza di insegnamento. Finché siamo in isolamento, faremo lezione online, una procedura che diventa gradualmente più facile».

Molti si chiedono se la pandemia ci cambierà, se impareremo qualcosa. Che cosa ne pensa?

«È impossibile dirlo. Le guerre cambiano le persone, i terremoti e le altre devastazioni anche, ma lo sapremo solo dopo un po’ di tempo. Credo però che le connessioni umane fondamentali non cambieranno, anzi i legami di famiglia o le amicizie potrebbero diventare anche più profondi».

La dimensione onirica, surreale, fantastica nella sua narrativa è importante quanto quella realistica. Pensa di cercare la stessa cosa in entrambi i generi? L’origine del Male?

«Sì, la mente inconscia, che appare nei nostri sogni, è certamente una “realtà” neurologica, anche se interna. Forse il nostro io più vero emerge nel sogno, come in certi tipi di finzione e arte surreale. Il bellissimo surrealismo di Calvino, per esempio, suggerisce un realismo psicologico che è forse “più reale” della superficiale scrittura realistica commerciale».

Ha pubblicato più di cento libri. Scrivere è una necessità o una sorta di liberazione?

«Scrivere è usare il linguaggio, che non è diverso da quello di un musicista che esplora la musica. C’è la speranza di comunicare con gli altri, naturalmente. L’arte alla fine è sempre un’impresa comune».

Il suo approccio alla scrittura è cambiato nel corso degli anni?

«Sì, sono interessata ad ascoltare i miei personaggi, a parlare con la loro voce, più di quanto non lo fossi in origine».

Lei passa per una stakanovista. Com’è la sua routine di scrittura?

«Inizio a lavorare al mattino presto, scrivo tutto il giorno facendo numerose brevi pause (cerco di andare all’aperto per correre e camminare ogni giorno, se posso; a volte sto con gli amici, sempre rispettando il “distanziamento sociale”). Di solito mi prendo un po’ di tempo per una cena e per guardare un film (Netflix, soprattutto), ma poi mi capita, verso mezzanotte, di rimettermi a scrivere e di andare avanti per un altro po’. Sono spinta dall’intensità del lavoro, spesso non voglio smettere di scrivere per tutto il giorno, ma a volte trovo molto difficile iniziare...».

Lei ha insegnato scrittura creativa alla Princeton University. Jonathan Safran Foer ha detto che le deve molto come romanziere. Ci sono altri scrittori che sono venuti nella sua scuola di cui è orgogliosa?

«Numerosi scrittori più giovani e oggi ben considerati dai critici hanno lavorato con me: Mohsin Hamid, Clare Beams, Jonathan Ames, Whitney Terrell, Akhil Sharma, Amir Ahmadi, Alex Gansa (il creatore della serie Homeland) e alcuni altri».

Sui social media è molto attiva, specialmente su Twitter. Cosa le piace di questo modo di comunicare?

«Twitter mi fornisce le notizie che mi interessano e mi ha permesso di crearmi una cerchia di amici che la pensano come me: liberal, anti-Trump, a favore della libertà di scelta sui temi etici, a favore dei diritti degli animali, delle preoccupazioni per il riscaldamento globale, dell’istruzione, della poesia. Twitter è una bella comunità se si sceglie con attenzione chi seguire. E questo mi piace».

A che cosa sta lavorando?

«Sto scrivendo un romanzo su una donna perseguitata da un uomo che in realtà è morto. Voglio esplorare il fenomeno emotivo/psicologico della “persecuzione” che può essere anche vividamente reale».