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 2020  maggio 10 Domenica calendario

Postfazione a "Perché ci siamo salvati" di Claudio Bondì e Stefano Piperno

Tutto mi sarei aspettato dalla vita tranne di ritrovarmi alla soglia dei cinquant’anni alle prese con la postfazione di un libro scritto da mio padre e mio zio: e mica un libro qualunque, bensì il genere di libro che ritenevo non avrebbe mai visto la luce. Del resto, mentre lo scorrevo per la prima volta (in seguito ne avrei affrontate diverse riletture, via via più distese e smaliziate), ho sentito montarmi dentro il sospetto infantile di essere stato defraudato: non del mestiere che mi sono conquistato lottando con le unghie, ma dei miei argomenti elettivi. Come se qualcuno fosse venuto ad abbeverarsi abusivamente allo striminzito, torbido stagno della mia ispirazione. Il dato ridicolo — segno di quanto sfrenata e onnicomprensiva possa essere l’impudenza filiale — è che, a pensarci bene, ero stato io a suo tempo a impadronirmi dei loro ricordi, non certo loro dei miei. E non mi ero limitato ad appropriarmene, ma li avevo snaturati, distorti, infangati, al solo scopo di offrire un contesto adeguato alle inadeguatezze virili di un discendente ingrato e risentito, e alle ubbie del fustigatore puritano i cui panni — dopo un’adolescenza scolorita — avevo deciso di indossare.

A mio nonno Franco piaceva raccontare (soprattutto ai nipoti) di quando il padre — il molte volte citato e assai venerando Pellegrino Piperno — gli diceva: «I tuoi figli faranno le mie vendette». Povero nonno Pio! Dubito potesse immaginare che un giorno il più improbabile tra i pronipoti avrebbe preso carta e penna per dare alla sua micidiale profezia un senso a dir poco letterale.

Se da un lato, infatti, non c’è parola che io abbia scritto nell’ultimo trentennio che non sia implicata, anche solo di sbieco, con il mondo irrimediabilmente perduto evocato in questo epistolario; dall’altro, a valutarle in retrospettiva, non ce n’è una, delle mie parole, che sia stata capace di sfiorare il garbo, l’indulgenza, la tenerezza di cui hanno dato prova questi due attempati corrispondenti: Stefano Piperno e Claudio Bondì, cugini e fratelli di latte, nati a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, sotto false generalità, alla macchia, braccati come leprotti in un mondo che ha smarrito decenza e dignità.

Commento al commento

Immagino che qualcuno, a questo punto, potrà giudicare sconveniente, se non proprio sfacciato, che io me ne stia qui a discettare su un testo che mi riguarda personalmente. Nei tempi tristi che viviamo, tanto inclini al sospetto e alla tendenziosità, ci sarà sicuramente lo scemo di turno pronto a twittare: ma guarda tu a che cazzo di nepotismo al contrario ci tocca assistere?

A costui vorrei dire che mi spiace per lui ma non c’è nulla di più ebraico di un commento al commento: lo sfrenato dialogo intergenerazionale in cui la memoria si mescola all’eloquenza, l’eloquenza al sentimento, il sentimento alla storia. Prima papà e zio Claudio si cimentano con il diario tenuto dal ventenne zio Maurizio negli anni più spaventosi della millenaria storia ebraica: lo citano, lo interrogano, lo decifrano; poi tocca a me chiosare le loro glosse affettuose; mi aspetto che prima o poi un nipote — un Piperno, un Bondì del Duemila e chissà cosa — sentirà l’urgenza di venirci dietro mettendosi a elucubrare a sua volta, portando nuova linfa a questa allegra, semiseria, a tratti dolente girandola di interpretazioni. C’è da perderci il senno. Che non si tratti della giudaica perversione dialettica così invisa ai nazisti?

Visto che ci siamo, dev’essere la deformazione professionale, ancor prima della pedanteria, a spingermi a segnalare le differenze stilistiche tra la prosa di Stefano e quella di Claudio. A fronte dello stesso bagaglio di ricordi, del comune background familiare e di una simpatetica condivisione di intenti, le loro voci conservano un’originalità sorprendente.

Papà è papà, con il suo debole per le idee generali e i contesti antropologici. La sua scrittura sobria, paratattica, indulge in ricostruzioni storiche e dissertazioni rabbiniche. Mi fa ridere (l’anticamera della tenerezza) l’attenzione prestata a stoffe, arredi, urbanistica, ricettari di famiglia. In essa riconosco lo scanzonato edonismo che ha saputo infondermi.

Zio Claudio è più incline a introspezione e lirismo. È un tipo emotivo. Per non parlare degli intrecci genealogici che non smettono di avvincerlo. Si vede che ha trascorso buona parte della vita a leggere e a scrivere, così come è evidente che la memoria gli procede a scatti: per lampi e analogie.

Insomma, tanto Stefano è spigliato e esplicito, tanto Claudio è allusivo. Ciò crea un curioso contrappunto sinfonico. D’altronde, se è vero, come pensava Karen Blixen, che la sola felicità concessa a un essere umano civilizzato è volgere in racconto le vicende della propria vita, è stato bello vedere come Stefano e Claudio abbiano scoperto, ciascuno a suo modo, l’ebbrezza di lasciarsi andare alla leggenda domestica che li terrà uniti per sempre. Conosco il sollievo e l’eccitazione di mettere per iscritto ciò che, in qualsiasi contesto genetico, reclama di essere serbato e protetto. Non sono mica reliquie da conservare sotto teca, ma sangue giovane, ricco di globuli e piastrine.

Questa breve divagazione stilistica sarebbe incompleta se non spendessi un paio di paragrafi sul diario di zio Maurizio. Non sapevo della sua esistenza. E dire che ho un ricordo abbastanza plastico di Maurizio Bondì, il padre di Claudio. In un certo senso era l’alterità dialettica rispetto a nonno Franco. I due cognati avevano così poco in comune da sembrare il prodotto di universi paralleli e incompatibili. Maurizio era affilato, laconico, almeno agli occhi indagatori di un bambino non proprio appariscente; Franco era virile, vitale, sempre in scena con i suoi calzini rossi e lo sguardo sfavillante e seduttivo. Eppure, non deve stupire che a prendere carta e penna sia stato Maurizio e non Franco. A pensarci bene, infatti, non deve stupire che tale esigenza narrativa sia scaturita dall’indole prudente e meditabonda del primo, alla lunga assai più efficace dell’energia faunesca del secondo. Comunque sia, si stenta a credere che quel diario sia stato vergato da un ragazzo di vent’anni, la stessa età dei miei svagati studenti. Altri tempi, certo. Quando l’istruzione borghese impartita in certi licei classici era in grado di formare piccoli umanisti provetti, quando l’ortografia e il buon uso della sintassi erano questioni di classe. Ritrovo nelle pagine di zio Maurizio un’eloquenza d’antan, la stigmate inconscia del lavaggio del cervello inflitto dal ventennio fascista anche ai giovani italiani che fascisti non erano. Ci sono proposizioni che trasudano la stessa tonitruante oratoria di un cinegiornale o una velina di regime. «È uno sconcio generale, ovunque si odono frantumarsi di vetri, legni, mattoni e mille e mille foto dell’odiato tiranno sono arse nelle piazze fra ali di popolo plaudente». Eppure anche un passo del genere esprime la forza di questo ragazzo, di quei ragazzi: l’entusiasmo che li guida nel mondo, la vitalità, la speranza.

Non sta a me indagare i moventi emotivi che indussero Maurizio a tenere un diario così dettagliato proprio in quel momento storico. Stando a ciò che dice Claudio, è come se il padre — in una felice intuizione profetica — avesse caricato le sue apparentemente fragili spalle dello spiacevole onere di comporre gli annuari del disastro che stava per travolgere lui e i suoi cari. Se da un lato, infatti, Maurizio scrive per sé, assecondando una precisa esigenza interiore, dall’altro sta lavorando per tutti: i genitori, la giovane moglie, i figli che ben presto metterà al mondo, e in fondo anche per noi che saremmo venuti parecchi decenni dopo. Così la sua voce si fa strumento dialettico della tribù: i Bondì, i Piperno, gli ebrei secolarizzati di una certa generazione e di una precisa cerchia sociale che aveva raggiunto la piena emancipazione e l’agiatezza nella Roma post-risorgimentale.

E mi chiedo se papà e zio Claudio, da una diversa prospettiva, un’ottantina d’anni dopo, raccogliendo la sfida lanciata da Maurizio, non abbiano voluto fare altrettanto, in tal modo innescando un vorticoso ciclone ermeneutico intorno al medesimo asse ereditario. Come se i rami dell’albero di famiglia — tratteggiati in modo così sapiente e meticoloso da nonno Pio — non smettessero di spuntare dal tronco vivo, massiccio e terribile che affonda le radici nel fertile limo della genealogia.

Lasciate che i morti seppelliscano i morti

Quasi tutti i ricordi che mi rendono felice hanno a che fare con le infinite discussioni da cui sono stato travolto fin dalla prima infanzia, dispute sollecitate e rese possibili da tavole imbandite zeppe di squisitezze non per forza ebraiche. Eravamo a cena quando la tv ci fornì i dettagli agghiaccianti dell’omicidio di Leon Klinghoffer, il paraplegico ebreo assassinato sulla nave da crociera Achille Lauro. Eravamo a cena quando sentii mio padre commentare con un certo scoramento la scelta del governo Craxi (di cui papà apprezzava il programma di modernizzazione e rinnovamento progressista) di liberare Abu Abbas durante la crisi di Sigonella. Eravamo a cena quando udii mio zio Leonardo raccontare gli istanti tragici che avevano portato alla morte del piccolo Stefano Tachè, durante l’attentato alla Sinagoga di Roma nell’ottobre del 1982: si dà il caso che lui, a quell’ora, fosse proprio lì, nel suo ufficio di via Catalana, a pochi metri dall’orrore.

Insomma, credo di aver scoperto a tavola la natura teatrale delle famiglie che avrebbe fatto di me un romanziere. Ciò rende più comprensibile il ruolo essenziale ricoperto dal cibo nel tiepido protetto ecosistema in cui ho avuto la fortuna di crescere.

Nonna Maria, nel suo delizioso snobismo, si vantava di aver rubato la ricetta della torta caprese allo chef del Quisisana di Capri. Civetterie auto-celebrative che ho sentito emergere qua e là anche dalle parole di Stefano e Claudio, e con cui ho ancora qualche conto in sospeso.

D’altra parte, come si può evincere dalle loro parole, l’alimentazione raffinata e il vivere bene erano importanti. Lo erano stati negli anni della persecuzione, quando erano venuti meno in modo drammatico; lo sarebbero stati ancor più in seguito, nella spensierata stagione della rinascita postbellica, come sordina ai ricordi di miseria e orrore. Non credo sia un caso che molti componenti delle nostre famiglie, dal secondo dopoguerra in poi, abbiano mietuto considerevoli successi nei più disparati ambiti dell’industria alimentare: ristoratori, catering planner e persino — parlo di Daniele, fratello di Claudio — amministratore delegato di una multinazionale del food. Che non si tratti della reazione, tanto prepotente quanto inesorabile, alla fame patita negli anni terribili: un appetito generalizzato che riguardava tutti gli aspetti di quella vita prima di allora mai così preziosa e in pericolo.

Ero già adulto e patentato quando, insieme a mio fratello, presi l’abitudine di accompagnare nonna Maria al Verano per l’omaggio annuale alla tomba di nonno Franco. Finita la visita, condita da siparietti spiritosi e ricordi commoventi, andavamo a fare colazione nel bar prospiciente al vecchio cimitero monumentale, una bettola famosa per i cornetti tiepidi, torniti, profumati. Nonna ci spiegò che quella era una tipica usanza ebraica: il cibo come antidoto alla morte. La vita che reclama il suo diritto a perpetrarsi.

«Lasciate che i morti seppelliscano i morti»: è l’esortazione che l’ebreo Gesù rivolge ai suoi discepoli ebrei. Lo stesso Maestro che per sfamarli è disposto a decuplicare pani e pesci. Del resto, ho sempre trovato il pauperismo cristiano un tradimento ai gusti conviviali di Gesù. E visto che parliamo di miracoli agro-alimentari, solo a un ebreo geniale poteva venire l’idea di tramutare l’acqua in vino durante un ricevimento nuziale.

Nonna, come molte altre ebree della sua generazione, parlava di rado e malvolentieri della tragedia che per poco non l’aveva annientata. Ma, quando lo faceva, il tema della scarsità di vettovaglie, esacerbato dalla fuga e dalla clandestinità, tornava alla ribalta puntualmente.

Un pomeriggio, uscendo dal cinema Barberini, per poco non svenne di fronte all’entrata dell’hotel Bernini Bristol. Una cospicua percentuale di quell’albergo signorile era appartenuta a Marco Del Monte, suo zio, patriarca ricco e munifico, cui i tedeschi avevano portato via figlia, genero e nipotine. «Non posso pensare a quei due angeli» si lagnava quel pomeriggio. «Principessine così schifiltose. Non mangiavano quasi niente». Il pensiero di nonna non faceva che volgersi all’inappetenza delle cuginette viziate dagli agi e dagli sprechi; la sua immaginazione indugiava sul viaggio in treno intrapreso dalle bimbe, senza acqua né cibo, stipate come animali da macello, alla mercé delle prime gelate d’autunno e della violenza affamatrice dell’implacabile macchina teutonica: ultima fermata Auschwitz-Birkenau.

Dal memoir congiunto di papà e Claudio emerge spesso — anche nel pieno delle rievocazioni più fosche — questa vena gioiosa, se non proprio frivola, che animava la famiglia. Il che dà conto dell’entusiasmo festaiolo dei Piperno e dei Bondì, di cui io stesso parecchi anni dopo avrei goduto i frutti autunnali. A fronte della mia precoce decisione di assumere pose intellettuali, censorie e misantropiche — indotta dalla montatura degli occhiali, che gravava su questo naso tratteggiato da una vignetta antisemita, più che da un’autentica disposizione d’animo — mi piaceva quando casa nostra si riempiva di gente, al solo scopo di vedersi e gozzovigliare.

Mi preme precisare che al tempo di quelle feste il mio piccolo nucleo familiare — composto dal sottoscritto, mio fratello Filippo, mamma e papà — doveva apparire uno spot idilliaco all’integrazione interreligiosa, impreziosito dal fatto che a suo tempo il matrimonio dei miei era stato osteggiato dalle rispettive casate con una certa fermezza, neanche fossero i Montecchi e i Capuleti.

Mio padre aveva preteso che Filippo e io fossimo circoncisi in culla; ma lo aveva fatto per quello che potremmo definire un atavismo igienico sul quale non era disposto a transigere. L’altra concessione che era riuscito a strappare — nella serrata concertazione sindacale ingaggiata con suoceri molto cattolici e parecchio diffidenti — riguardava la nostra educazione religiosa: non dovevamo riceverne alcuna; nessuna influenza né da una parte né dall’altra. «Decideranno loro» aveva detto con salomonica equanimità spolverata di fatalismo biblico, ben sapendo che procrastinando alla maggiore età il tempo della nostra scelta era probabile che avremmo finito per non scegliere alcunché, cosa che si sarebbe puntualmente verificata.

Vanto diversi debiti di gratitudine con i miei: a cominciare da un’infanzia, dopotutto e al netto delle nevrosi di prammatica, prospera e spensierata. Ma forse la cosa per cui non smetterò mai di ringraziarli è di aver realizzato sul campo il sogno espresso dalla più famosa strofa della più celebre canzone di John Lennon:

Imagine there’s no countries

It isn’t hard to do

Nothing to kill or die for

And no religion too

Imagine all the people

Living life in peace...

A me non serve immaginare. Mi basta ricordare.

Né mio padre né mia madre davano peso, almeno di fronte a noi, alla propria origine, né a quella di chiunque altro. Se l’avessero fatto probabilmente non si sarebbero sposati. Ricordo ancora la punizione draconiana che mi venne inflitta per aver apostrofato (naturalmente in absentia) un ragazzino rom che mi aveva presumibilmente sfilato il portafoglio in autobus. Che vergogna! Ancora oggi niente considero più schifosamente oltraggioso della generalizzazione razziale; niente mi sdegna e mi risulta odioso come chi fa eccezioni tipo: «Io non ho pregiudizi tranne che per gli zingari».

In quanto a qualcosa per cui morire o uccidere, sebbene sia venuto al mondo nel periodo storico in cui la contrapposizione ideologica raggiungeva una specie di apice parossistico, bisogna dire che il settarismo politico era un vizio intellettuale bandito da casa, non meno della maleducazione. I miei non erano soliti scendere in piazza. Aborrivano gli slogan politici di ogni colore. Diffidavano di chiunque ritenesse di aver ragione a priori, e in virtù di tale primato auto-certificato si sentisse in diritto di auspicare la distruzione dell’avversario politico. L’odio non faceva per noi.

Ma veniamo al mondo senza religioni auspicato da Lennon. Io ci sono cresciuto dentro. Anzi, vorrei dire che in casa le religioni erano state ridotte a un diversivo ludico che dava il meglio di sé durante le festività dell’una o dell’altra confessione; come se un folklore variopinto avesse preso il sopravvento su qualsiasi spiritualità. Da bravo bimbo cattolico amavo il Natale per i mille diversivi consumistici, le vacanze interminabili, i dolciumi stucchevoli e pieni di grassi saturi. Da bravo bimbo ebreo mi piaceva che mia nonna mi mettesse una mano in testa per benedirmi, mi sembrava parecchio fico indossare lo zucchetto al Seder di Pesah, non avrei mai potuto fare a meno delle pizzarelle alle azzime irrorate di miele caldo che ancora oggi mio fratello replica con precisione filologica. Ciò detto, niente comunioni, niente Bar Mitzvah, al bando chiese e sinagoghe.

Per dare il senso del paganesimo che si respirava in famiglia, in assenza di una cerimonia di iniziazione alla vita adulta adeguata alle circostanze, fu proprio zio Claudio a inventarsi per la figlia una non meglio precisata «festa della primavera», per sostituire Comunione o Bat Mitzvah.

Conservo un cimelio che dimostra come queste religioni in millenario conflitto avessero trovato un modo più che civile di convivere nel soggiorno di casa. Una foto dai colori sbiaditi che potrebbe fare da manifesto a qualsiasi campagna per la tolleranza interculturale: io, papà, mamma e Filippo seduti sul divano vestiti a festa: alla sinistra un albero di Natale addobbato, alla destra la Hanukkiah ardente.

Voglio molto bene a questa foto. Mi sembra che illustri le placide, ironiche virtù della secolarizzazione, la stessa che oggi è minacciata dalla recrudescenza di fondamentalismi medievali forieri di chissà quali disastri.

Non mi sarei così dilungato sulla composizione morale della mia piccola tribù, sulle sue abitudini profane, se non pensassi che le suddette splendide feste organizzate dai miei non ne fossero la prelibata emanazione. Sempre più, infatti, quei ricevimenti mi appaiono il solo rituale religioso che mi sia stato imposto. Forse qualcuno potrà ritenerlo un tantino troppo dionisiaco per un ragazzo implicato con le due più antiche religioni monoteistiche dell’Occidente, ma tant’è. D’altro canto, viene da chiedersi se tale smaniosa urgenza di riempire la casa di ospiti non rispondesse a un’esigenza nata in un’epoca in cui le case degli ebrei erano state ridotte da leggi razziste e liberticide a luoghi di tremebonde detenzioni; per non parlare dei mesi durante i quali quelle medesime dimore erano rimaste disabitate, abbandonate in fretta e furia dai proprietari fuggiaschi e braccati.

Non a caso i menu delle feste in casa Piperno obbedivano a una ferrea ortodossia, celebrando pedissequamente una collaudata tradizione gastronomica: mozzarella all’imperiale, cicoria e bottarga, ragù di funghi secchi, gâteau di patate, concia e l’immancabile crema al mascarpone con scaglie di cioccolato di nonna Maria. Visto che gli ebrei sono proverbialmente astemi, le bottiglie di vino rimanevano per lo più intonse.

Tra gli habitué c’era zio Claudio. In veste di intellettuale della famiglia, gli toccava subire le mie molestie di aspirante scrittore. Si era laureato con Giovanni Macchia e aveva fatto da aiuto regista a Roberto Rossellini, credenziali di prim’ordine, e non solo agli occhi di questo piccolo Rastignac. Ricordo quando una sera, con il piatto ricolmo di polpettone e patate, mi spiegò che i romanzieri si dividono in due categorie: quelli in terza e quelli in prima persona. A poco valsero le mie dotte obiezioni: c’erano un mucchio di romanzieri, m’infervorai, che avevano usato diversi punti di vista con la stessa disinvoltura. Con il senno di poi, temo di dovergli dare ragione. A ben guardare, quanti sono gli scrittori capaci di utilizzare le due tecniche con la medesima intensità e immediatezza? Davvero pochi. Forse Tolstoj, ma è come dire Michelangelo o Mozart: non fa testo.

Poi c’era la musica. Quale ortodossia non la contempla? Le leggi razziali avevano costretto mia nonna a lasciare anzitempo il conservatorio, ad appena un anno dal diploma. Il solo testimone di quell’atroce ingiustizia era una spinetta malconcia relegata a un angolo del soggiorno: irrimediabilmente scordata, tastiera annerita, pedali ossidati, quel povero arnese ottocentesco emetteva un suono sgradevolmente barocco. Il trauma dell’espulsione aveva avuto effetti più duraturi e fatali di quanto nonna non fosse disposta ad ammettere: solo una volta, infatti, la sentii accennare la marcetta alla turca di Mozart disseminata di stecche commoventi.

I suoi eredi erano decisamente più generosi, ai limiti dell’esibizionismo. Quale miglior occasione, se non le nostre feste, per infliggere agli ospiti satolli di cibo interminabili jam session? In seguito mio cugino Michelangelo avrebbe intrapreso la carriera di chitarrista: oggi, dopo aver tirato la carretta per un quarto di secolo, è un professionista ammirato e un autentico virtuoso. All’epoca la vera star era suo padre, Leonardo, il fratello di papà. Che alla fine era riuscito a diplomarsi in chitarra classica, sebbene in ritardo, e da privatista. Malgrado le vecchie signore gli chiedessero sempre di eseguire un preludio di Villa-Lobos, o la trascrizione per chitarra di Asturias di Isaac Albéniz, eseguita da mio zio Leonardo con l’energia necessaria e con la sufficiente circospezione, si finiva per tornare al suo grande amore di gioventù, il rock’n’roll: Ricky Nelson, Gene Vincent, Eddie Cochran, per citarne alcuni. Erano stati i nostri genitori a iniziarci a quella musica anacronistica. Leonardo Piperno possedeva una collezione di oltre ventimila dischi, impreziosita da autentici pezzi rari come i bootleg dei primi concerti di Ray Charles (suo idolo indiscusso).

Non mi diffonderei troppo su questo genere musicale — paragonato alla trap in voga oggigiorno suona remoto come un madrigale di Monteverdi — se non ritenessi che la devozione che tutti noi gli portavamo ricopra, nel contesto, un’importanza nodale.

Tale passione idolatra era sorta in papà, Claudio e Leonardo nei tardi anni Cinquanta, grazie ai dischi di importazione inviati da zia Adriana che, seguendo il marito emigrato durante le leggi razziali, si era trasferita negli Stati Uniti. Così, mentre la maggior parte dei loro connazionali era alle prese con le hit di Nilla Pizzi e Claudio Villa, questi ragazzi di buona famiglia israelita, nei loro ampi appartamenti del centro storico di Roma o di Monteverde, ballavano sui riff irresistibili di Chuck Berry e James Burton. Musica negra di cui si erano impossessati giovani bianchi proletari e ribelli (Elvis Presley, Eddie Cochran, Jerry Lee Lewis), decisi a reinterpretarla e in tal modo contribuendo a cambiare il mondo, non solo quello della musica.

Non vorrei esagerare con le suggestioni, ma nessuno mi toglie dalla testa che anche quella musica fosse al servizio — proprio come l’edonismo, le feste, il cibo — di un programma di auto-rigenerazione. Quella era la musica dei liberatori, che inneggiava alla vita e al sesso, la musica anti-puritana, che negava la legittimità dell’apartheid etnico e della pruderie erotica, insomma il miglior antidoto morale ed estetico alle purghe hitleriane che avevano rischiato di cancellare gli ebrei di mezza Europa dalla faccia della Terra.

Con le migliori intenzioni

Frivolezza, sarcasmo, improntitudine, inclinazione al sofisma, al depistaggio e al millantato credito, imprudenza, incapacità di valutare l’effetto d’ogni singolo atto, prodigalità, sessuomania, disinteresse per l’altrui punto di vista, riluttanza a riconoscere i propri torti, ostentato vigore caratteriale che è solo debolezza, e soprattutto una peculiare varietà di ottimismo che sconfina nell’irresponsabilità: non è che una piccolissima dose della miscela con cui abitualmente ti fregano, mettendoti con le spalle al muro, il microbo con cui t’intossicano l’organismo, ma anche la cocaina con cui lo euforizzano. E se solo avessi, a mia volta, trovato il coraggio d’inchiodarli alle loro responsabilità, se solo avessi avuto l’impertinenza (di cui ero così sprovvisto agli albori della mia pubertà) di intimare loro: «Vi prego, vi scongiuro, non sarà l’ora che ammettiate i vostri torti? E che guardiate in faccia alla realtà?», sono certo che essi mi avrebbero guardato con disprezzo per bruciarmi subito dopo con una facezia filosofica tipo: «Il signorino è pregato di dare una definizione di realtà!».

Così inizia una delle tante invettive contro la famiglia di origine scagliate da Daniel Sonnino, il giovane narratore di Con le peggiori intenzioni, il mio romanzo d’esordio. Il libro era, o almeno sarebbe dovuto essere, un’irriverente requisitoria contro i Penati fin troppo soffocanti da cui io e il mio narratore stavamo affannosamente cercando di emanciparci. A scanso di equivoci, desidero chiarire che, malgrado le esperienze adolescenziali di Daniel ricalchino per sommi capi le mie, malgrado i nostri milieu si somiglino fin quasi a confondersi, la mia adolescenza, per quanto turbolenta e non priva di ombre, è stata decisamente più lieta e risolta della sua; così come i personaggi che l’hanno popolata risultano, soprattutto se sottoposti al vaglio dei ricordi, assai più innocui di quelli da me inflitti al mio disgraziato eroe.

Per ragioni a tutt’oggi misteriose, Con le peggiori intenzioni ottenne molto più successo del previsto e parecchi più dissensi del necessario. Anche in virtù del bailamme che riuscì a suscitare, fu preso da alcuni componenti della mia famiglia come una specie di tradimento della deontologia parentale. Mi giunse voce che alcuni Piperno (abbastanza lontani da me, ma assai prossimi ai miei defunti nonni) si risentirono al punto da riunirsi per esecrare le deliranti intemerate messe in bocca a Daniel Sonnino dal suo irresponsabile creatore. Pare che la frecciata più sgradita fosse quella che riduceva le leggi antiebraiche del 1938 al rango di mere «frustrazioni erotiche». Come mi ero permesso di ironizzare su ciò che aveva rischiato di annientarli? Come avevo potuto liquidare con una battuta di dubbio gusto la tragedia ebraica per antonomasia, fino a svilirla trucemente? Come avevo osato oltraggiare la sacralità della Memoria con un cinismo degno del peggior antisemita?

Non è certo questa la sede per dare voce alle mie ragioni, o per discolparmi.

Se ne ho fatto cenno è solo perché nelle pieghe delle email di Stefano e Claudio mi è sembrato di ravvisare una cauta interlocuzione nei confronti degli spettri dei loro genitori che fa il paio con i dubbi espressi fin troppo sfacciatamente dal protagonista di quel mio primo controverso romanzo. Essi riguardano la specificità di un certo ambiente ebraico romano di cui Franco e Maria Piperno, così come Maurizio e Gianna Bondì, erano parte integrante: un mondo che nel giro di pochi decenni aveva raggiunto un grado di assimilazione rispetto all’universo dei «gentili» impensabile ai loro antenati; e insieme di consapevolezza delle proprie forze, dei diritti e degli obiettivi sociali e mondani da perseguire e raggiungere; e soprattutto di benessere borghese fatto di civismo, costumi raffinati, attività sportiva, cultura umanistica. Franco e Maria, Maurizio e Gianna erano tutti nati immediatamente prima o subito dopo l’avvento del fascismo, e quindi all’ombra di un regime autarchico, autoritario, tanto spietato con gli oppositori quanto generoso con i sostenitori più ottusi e zelanti. Il che significa che questi ragazzi belli e ben pasciuti non avevano avuto l’opportunità di conoscere altro. Come ricorda papà, nonno Franco aveva percorso tutte le tappe dei giovani fascisti, sguazzando beatamente nella retorica machista contrabbandata dal regime. E mai, nei primi incoraggianti anni della sua vita, gli era passato per l’anticamera del cervello che potesse esistere un Paese migliore del suo o un contesto storico più vantaggioso in cui nascere, crescere e generare.

Conservo un’immagine di lui che, nel suo abbacinante splendore iconografico, rende merito a quel remoto noviziato avanguardista. Madonna di Campiglio, tardi anni Settanta, avrò otto anni al massimo. Sono su un campo scuola alle prese con scalette e spazzaneve al fianco di altri pargoli infagottati, quando vedo nonno destreggiarsi su una cunetta nel suo stile sicuro e antiquato. Gli sci sono straordinariamente lunghi, così come le racchette. Il corpo massiccio e virile è fasciato da una divisa grigia la cui marziale austerità è minata dallo svolazzante pompon sul berretto di lana. Si ferma a pochi passi da me e mi ammicca raggiante. Eccolo lì, nel suo elemento: la pelle abbronzata, le labbra spalmate di burro di cacao, il sorriso trionfante di chi non ha altro da desiderare. Immagino che il duce e i suoi gerarchi ne avrebbero apprezzato sia la posa che lo spirito.

Mi chiedo come abbia reagito un diciottenne ebreo come lui, venuto su in questo contesto, entusiasta, vitalista e speranzoso, all’onta inflitta alla sua gente dalle leggi razziali e dal Patto d’acciaio. Posso solo immaginare il senso di delusione e sconforto. La stupefazione mista a paura.

E tuttavia neppure questo riuscì a piegarlo, né a renderlo diffidente nei confronti della vita, di sé stesso e delle proprie scelte. Ciò vale per lui, ma anche per gli altri. È come se avessero optato per non lasciarsi schiacciare dal senso del tragico di cui erano così evidentemente sprovvisti. Una mancanza che paradossalmente li protesse, se non dagli eventi che li minacciavano, dal rischio di non riuscire ad affrontarli qualora li avessero superati. Che non basti questo a spiegare il baldo colpo di reni con cui nell’immediato dopoguerra riuscirono a risollevarsi: la capacità di mettersi l’orrore alle spalle, fin quasi a disinnescarlo; e di recuperare il tempo perduto con un’energia coriacea e spavalda. Per l’ennesima volta reagirono alla morte mangiando, vivendo, spassandosela. Trasformarono la debolezza in forza. Non permisero che fosse l’angoscia, o il risentimento, a dettare loro l’agenda emotiva negli anni a venire.

Ecco l’atteggiamento da me sarcasticamente celebrato nelle pagine più vibranti di Con le peggiori intenzioni; un contegno verso il quale Stefano e Claudio — con quale maggiore saggezza — si mostrano indulgenti, e in un certo senso grati. «La mia impressione — scrive papà — è che l’anelito alla felicità superò qualunque ostacolo, la normalità del bene contro la banalità del male». Gli fa eco poche pagine dopo Claudio, riflettendo sul viaggio di nozze intrapreso dai genitori nell’estate del 1943, a pochi giorni dall’8 settembre: «C’è una leggerezza che solo l’amore è capace di garantire a due ragazzi che riescono a guardare al futuro sorridenti e felici. E sì che mia madre a sedici anni era stata espulsa dal liceo Virgilio e mio padre, a diciannove, dalla facoltà di Economia. Penso a come sarei stato io nelle loro condizioni: ma non trovo parole e resto incantato dalle loro, che non conosco e solamente posso immaginare».

Come si vede, papà e Claudio non smettono di chiedersi come avrebbero reagito loro di fronte al cataclisma che colpì genitori, zie, nonni. E allo stesso tempo entrambi danno conto di come Franco e Maurizio, Maria e Gianna avessero continuato a vivere nel modo in cui avevano sempre vissuto. Cos’altro, se non un’acerba incoscienza, un cieco investimento sulla benevolenza del destino, può averli indotti a sposarsi, a intraprendere viaggi pericolosi muniti di documenti falsi, a mettere al mondo bambini già segnati e destinati al macello? La domanda che perseguita papà e Claudio è la stessa che da sempre affligge anche me: perché lo fecero? Come ci riuscirono? Cosa diavolo diceva loro il cervello?

La verità è che non c’è strabismo più periglioso che valutare un evento storico, persino il più gigantesco e sciagurato, con il famigerato senno di poi. In tal senso gli argomenti di Primo Levi appaiono al solito i più penetranti e persuasivi: «Molte minacce di allora, che oggi ci sembrano evidenti, a quel tempo erano velate dall’incredulità voluta, dalla rimozione, dalle verità consolatorie generosamente scambiate ed autocatalitiche».

Diciamola tutta: nessun ebreo romano allora poteva immaginare — come avrebbe potuto? — fin dove si sarebbe spinta la macchina demoniaca del totalitarismo omicida tedesco. Papà ricorda come ancora dopo la raccolta dell’oro la maggior parte degli ebrei romani confidasse nel fatto che il malvagio programma dei nazisti avrebbe portato alla deportazione dei soli maschi abili. Sebbene fosse già un’enormità, almeno rientrava nel novero di cose orribili che possono capitare a un uomo adulto in tempi di guerra. D’altronde, non erano trascorsi così tanti anni da quando quasi un’intera generazione di italiani, chiamata a difendere i confini patrii, aveva perso la vita o subito gravi mutilazioni fisiche e morali in trincee tanto fangose quanto insalubri.

Insomma, neanche l’ebreo più pessimista, la Cassandra paranoica e apocalittica della comunità, avrebbe potuto immaginare l’esistenza di un posto come Treblinka. Nessuno a Roma (ma forse neanche a New York, a Londra, a Mosca) aveva idea delle stragi perpetrate a danno di inerti comunità askenazite compiute dai tedeschi nei boschi della Galizia, o delle condizioni in cui versavano gli abitanti dei ghetti di Cracovia o Varsavia. Quale perversa fantasia masochista e kafkiana avrebbe potuto concepire un simile inferno?

«Il mondo non è stato creato una volta per tutte per ciascuno di noi» sentenzia Proust in uno dei momenti più toccanti della Recherche. È strano come questa frase bellissima e struggente si attagli al trauma giovanile dei miei nonni. Erano poco più che adolescenti quando scoprirono che il mondo — quel mondo pieno di cose confortevoli e affidabili — non era stato creato per loro una volta per tutte. Ciò che ignoravano è quanto assurdo e oscuro potesse essere il nuovo mondo in agguato. Da ciò, immagino, dipese la loro imprudenza, e quella di molti altri. Come possiamo biasimarli? Chi di noi può avere una visione panoramica della tragedia storica che è in procinto di sommergerlo? Per quanto colti e scafati potessero essere, per quanto accorti e informati si ritenessero, nessuno dei miei familiari poteva immaginare fin dove sarebbe arrivata l’atroce ideologia che aveva eletto a nemico giurato dell’umanità qualsiasi ebreo sulla faccia della Terra: per il semplice fatto che nessuno li aveva preparati ad affrontare una così improbabile, devastante calamità. Se non altro perché, fino a quel mo-mento, per loro essere ebrei non aveva mai costituito una questione talmente seria da implicare cose determinanti come la vita e la morte.

Mi ha sempre colpito che i miei nonni chiamassero i loro persecutori i «tedeschi», e non i «nazisti», come ci veniva insegnato a scuola. Evidentemente per Franco e Maria, per Maurizio e Gianna, la militanza ideologica di quegli orrendi criminali disposti a tutto pur di acciuffarli era irrilevante. I tedeschi non erano astrazioni malvagie, crudeli marionette letterarie, come a noi retrospettivamente appaiono i nazisti. Bensì persone in carne e ossa: forestieri dai nasi affilati e gli aliti pestilenziali; squadracce armate fino ai denti, infagottate in divise brune o grigio ferro, con i medesimi elmetti dalla visiera sporgente, che non facevano alcuno sforzo per farsi capire dalle vittime, impartendo ordini sinistri, assurdi, violenti nell’inconfondibile, indimenticabile idioma. Per questo a nessun ebreo romano della generazione dei miei nonni, dal secondo dopoguerra in poi, sarebbe mai venuto in mente di andare in vacanza nella Foresta Nera, di acquistare un disco di Wagner o una Mercedes. Non era questione di ritorsione, e neppure di odio immedicabile. Era diffidenza; un modo come un altro per gestire il trauma, e soprattutto per non sfruculiare i dormienti spettri da cui non si sarebbero mai liberati.

La coppia di ungheresi

A proposito di spettri, ce ne sono un paio che da sempre occupano la mia fantasia e tormentano i miei sonni. Una coppia di coniugi ungheresi che frequentava la nostra casa con una certa regolarità. Erano fornitori di mio padre, disegnatori tessili di gusto, fama e talento. Per discrezione preferisco tacerne i nomi ma non l’aspetto così singolare, tanto più quando li vedevi insieme. Lui segaligno, dinoccolato, affetto da una lieve scoliosi, aveva un aspetto svagato e aristocratico, con le sue guance infossate lucide e friabili come un’antica pergamena. Lei era piccola, tondetta, con occhi straordinariamente vigili: il vero motore della coppia. Maneggiavano parecchie lingue ma davano l’impressione di non parlarne correttamente nessuna, se non la propria, immagino. Non credo di averli mai sentiti alludere al proprio passato mostruoso, e tuttavia esso incombeva al punto da precederli: ne portavano i segni con misteriosa, assurda leggerezza, o con quella che potremmo chiamare ironia askenazita. Provenivano entrambi da famiglie dell’alta borghesia di Budapest che avevano versato tributi umani e patrimoniali insostenibili, sia alla malvagità nazista che all’avidità sovietica. Vittime sacrificali dei grandi totalitarismi novecenteschi, avevano visto il loro leggiadro, cosmopolita mondo austroungarico andare in pezzi in appena un lustro, dovendo sopportare prima la deportazione di genitori, fratelli, cugini; poi l’esilio.

Erano la cosa più simile ai personaggi del Mondo di ieri di Stefan Zweig in cui mi fossi mai imbattuto. Ma a dispetto del grande scrittore viennese avevano scelto di ricostruirsi un’esistenza degna di questo nome in altri Paesi, e lo avevano fatto con decoro e successo.

Se ne parlo qui, se li chiamo in causa dopo tanti anni, è perché in qualche misura essi rappresentavano l’altra faccia — quella innominabile — della persecuzione. Sebbene condividessero con la mia famiglia le origini religiose e alcune tradizioni millenarie, avevano dovuto sostenere ben altre angherie e ben più durevoli strazi. Per loro la Shoah non era come per me un incubo infantile, o come per i miei nonni un ricordo doloroso, ma il cuore di una sventura permanente e indicibile, il cancro morale che li avrebbe tormentati fino alla tomba. Eppure niente di tutto questo sembrava emergere in superficie, almeno non in società. Si comportavano come tutti gli altri amici dei miei genitori. Lavoravano, viaggiavano, si nutrivano doviziosamente, ascoltavano bella musica, andavano al cinema. Il che, spero ne converrete, era incredibile.

Il rispetto che provavo per loro era di natura superstiziosa. Per dare un’idea di quanto morbosamente mi avvincessero, basti dire che erano gli anni in cui mio fratello e io eravamo in preda a una specie di smania nell’accumulazione compulsiva di libri sul genocidio ebraico. Una bulimia bibliografica macabra e insana a cui saremmo scampati con una certa difficoltà. Non posso parlare a nome di Filippo, ma per quanto mi riguarda ho il sospetto che il cuore della mia ricerca, allora come oggi, si concentrasse sul mistero incarnato da quella civile, sorniona coppia di ungheresi. Non conoscendo la loro storia avrei potuto prenderli per gente qualsiasi, un po’ eccentrica forse, incline a bizzarre trascuratezze freak, ma niente di più. E invece non era affatto «gente qualsiasi». Se lo fosse stata, avrei incontrato meno difficoltà a comprenderli e a identificarmi. Qualcosa me lo impediva. Un deficit di coraggio, forse. Dio solo sa se ci provavo. Del resto, un giorno immaginare sarebbe diventato il mio mestiere. Era bene impratichirsi con quella divina facoltà umana. Macché. Mi domandavo cosa avrei fatto io al loro posto. Cosa ne sarebbe stato di me se avessi dovuto affrontare ciò che avevano affrontato loro. Se un certo giorno un nemico bieco avesse portato via mamma, papà, Filippo, zii, cugini in un posto remoto e terribile al solo scopo di gasarli e incenerirli. Se avessi dovuto lasciare tutto — la casa avita, Roma, la mia meravigliosa lingua — per trovare asilo in qualche Paese lontano, costretto a inventarmi da zero, senza appoggi, senza una lira in tasca, una nuova vita, una nuova famiglia, una nuova professione. Mi chiedevo come avrei gestito ricordi così mefitici e ingovernabili. E capivo che lo scenario era talmente desolato e raccapricciante da non autorizzare alcuna plausibile messa a fuoco. Forse, mi dicevo, nei loro panni avrei fatto come Stefan Zweig: mi sarei tolto la vita.

A giudicare dal contegno tenuto durante le cene in casa nostra o nel loro studio alle porte del ghetto, i due coniugi ungheresi avevano deciso altrimenti. Eccoli lì, alle prese con qualche squisita pietanza, impegnati in discussioni sulla politica di Israele o assorti nella contemplazione di un librone zeppo di illustrazioni.

Credo di aver iniziato allora a diffidare — pur senza saperlo — di quell’entità astratta e inservibile, troppo spesso invocata nel dibattito pubblico, che si chiama «memoria collettiva».

Mi chiedo: come può la memoria di un individuo riguardare gli altri? Come possono i ricordi di pochi implicarci tutti? Un ricordo non è forse ineluttabilmente personale, e quindi tragicamente incomunicabile? Posso solidarizzare con un amico rimasto vedovo, posso persino figurarmi l’incolmabile senso di vuoto in cui annaspa, poveretto, ma non potrò mai intendere l’intrinseca specifica natura del suo lutto. Ed è proprio questo il punto: niente ci fa sentire più soli dei nostri ricordi. Vale per quelli lieti, ma ancor più per quelli dolorosi. Bisogna farsene una ragione: ogni pretesa di memoria comune implica una buona dose di ipocrisia, retorica e impostura. Nasconderselo è un oltraggio alla verità.

Allora si comprende meglio perché non c’è un solo scampato a una grande sciagura che prima o poi non debba fronteggiare il senso di sconfinata solitudine insito nella sua condizione derelitta. Non c’è sopravvissuto ai campi di sterminio, o più in generale alla persecuzione nazista, che non avverta nel profondo del proprio cuore l’impossibilità di raccontare l’angoscia, la mortificazione, l’orrore in cui non smette di dibattersi. Come ha scritto Elie Wiesel: «Quelli che non hanno vissuto quell’esperienza non sapranno mai che cosa sia stata; quelli che l’hanno vissuta non lo diranno mai; non veramente, non fino in fondo. Il passato appartiene ai morti, e il sopravvissuto non si riconosce nelle immagini e nelle idee che pretendono di descriverlo». In termini analoghi, a più riprese, si sono espressi anche Levi, Bettelheim, Améry e tanti altri ancora. D’altra parte, tale inesprimibilità raccapricciante è il cuore della poesia di Celan e dell’opera saggistica di Steiner.

Spesso, nel corso degli anni, mi è accaduto di pensare che molti dei sopravvissuti, ansiosi di testimoniare la propria esperienza, avessero finito con il prendere fin troppo seriamente il loro dovere di ricordare, e non abbastanza il loro sacrosanto diritto di dimenticare.

C’era qualcosa di morboso e sconcio nella curiosità che la coppia di ungheresi mi suscitava. E qualcosa di estremamente dignitoso nel modo in cui affrontavano la vita, senza mai lasciarsi andare allo sconforto, almeno non di fronte a quel piccolo impiccione. Avrei dovuto avere maggior rispetto per il mistero che incarnavano, e provare a comprendere il loro diritto a essere altro da ciò cui la storia li aveva condannati.

Altrettanto si può dire dei miei nonni e dei miei prozii. Mentre io e mio fratello, la terza generazione, eravamo alle prese con i nostri studi eruditi sull’origine e la natura del Male, essi — che di quel Male erano stati vittime — preferivano concentrarsi sulle diuturne faccende della vita: la famiglia, i figli, il lavoro, il sesso, l’adulterio, il cibo, lo svago, i viaggi, guardandosi bene dal ripudiare la frivolezza, l’incoscienza e l’irresponsabilità che li aveva assistiti anche durante gli anni più terribili.

Partorienti in fuga

Fu questo a salvarli? Questa specie di sfrontatezza?

Papà e Claudio se lo chiedono a più riprese. E con loro, immagino, chiunque sia sopravvissuto per il rotto della cuffia. Non occorre tirare ancora in ballo Primo Levi per capire che non c’è merito nel farcela, né demerito nel soccombere. Fu il caso, o se preferite una serie di circostanze imperscrutabili, a decidere la sorte della maggior parte degli ebrei europei. È una cosa penosa da accettare, ma è la sola che resista alla prova del buonsenso.

Resta comunque il fatto che alcune condizioni si dimostrarono obiettivamente più favorevoli di altre, e ciò rese, se possibile, ancor più iniqua l’ingiustizia. Papà e Claudio si sono guardati bene dal nascondere i privilegi di carattere finanziario, sociale, culturale, logistico di cui si avvalsero i Piperno e i Bondì, vantaggi senza i quali probabilmente non ce l’avrebbero fatta. Non è certo un oltraggio notare come il tributo più salato — in termini di sparizioni e di morti — fu pagato dagli ebrei meno abbienti, quelli che costituivano il ventre molle della comunità millenaria, la classe popolare in gran parte ancora imprigionata nel vecchio ghetto cittadino. Ce lo ricorda Giacomo Debenedetti nel suo 16 Ottobre 1943, scritto a caldo, pochi mesi dopo la tragedia, con la scarna solennità di un kaddish.

Erano proprio loro, quelli di «piazza Giudìa», che più avrebbero dovuto avvertire la minaccia, perché loro erano destinati a fornire il più vasto bottino di vittime. Ma avrebbero poi dato retta a quell’allarme? Erano pigri, attaccati ai loro luoghi. L’ebreo errante ormai si sente stanco, ha troppo camminato, non ce la fa più. La fatica di tanti esilii e fughe e deportazioni, di quelle tante strade percorse dagli avi per secoli e secoli ha finito con l’intossicare i muscoli dei figli; le loro gambe si rifiutano di trascinare ancora i piedi piatti.

Con tutta evidenza né i Piperno né i Bondì appartenevano a questa categoria di ebrei erranti resi sedentari da secolari tribolazioni. Anzi, erano l’esatto opposto: dinamici fino all’avventatezza, e tuttavia abbastanza scaltri, introdotti, scolarizzati da non abbandonarsi all’atavico fatalismo, cercando piuttosto soluzioni, se non proprio lineari, sicure o definitive, almeno efficaci. La destrezza inaudita con cui zia Bice riuscì a salvare dall’annientamento il suo piccolo nido familiare — cui rende merito Claudio in un paio di vividi paragrafi picareschi — la dice lunga sulle doti di audacia e improvvisazione di cui disponevano le figlie di Graziadio e Maddalena Piperno.

Del resto, è proprio con loro, le ragazze, che vorrei chiudere questo piccolo omaggio postumo.

Poche figure suscitano la mia ammirazione e altrettanta curiosità romanzesca come le due giovanissime partorienti in fuga: mia nonna Maria e zia Gianna. Toccò a loro portare nove mesi in grembo i fragili feti che un giorno — a quasi ottant’anni di distanza — avrebbero preso a scambiarsi email per dare senso a giorni così insensati. Stando a calcoli non troppo complessi, i due autori di questo libro furono concepiti a distanza di una manciata di giorni l’uno dall’altro, nell’estate del 1943, e quindi a pochi mesi dal crollo del fascismo e dall’avvio delle conseguenti perquisizioni antiebraiche a opera degli sgherri di Himmler. Ciò significa che sia Maria che Gianna vissero il meglio della loro gravidanza nella condizione peggiore che si possa immaginare: sotto falso nome, senza adeguato ricovero, in ansia per la propria sorte e quella dei cari più prossimi.

Come uomo mi è quasi impossibile ogni tentativo di immaginare gli incanti e i disagi della maternità. E non parlo solo dei risvolti biologici della faccenda. Al netto di ogni retorica, mi è consentito tutt’al più figurarmi il senso di responsabilità da cui si sente investita una donna incinta. Non credo sia scorretto considerare la gravidanza l’esperienza simbiotica più radicale messa in campo dalla natura.

Ciò rende ancor più inconcepibile ed eroico il coraggio con cui quelle due ragazzine affrontarono il proprio stato interessante. Mi chiedo cosa passasse loro per la testa. Si sentivano in colpa? Erano guidate dall’incoscienza o blandite dalla speranza? Oppure, avevano solo un motivo in più rispetto a qualsiasi altro per resistere e combattere? La Liberazione era ancora un’ipotesi aleatoria. Ciò significa che il rischio che correvano era di mettere al mondo due marmocchi ebrei che non avrebbero mai conosciuto il privilegio di vivere la propria vita com’era giusto che la vivessero. E tuttavia è logico domandarsi se ad animarle non fosse un istinto assai meno dissennato e imbelle: il sospetto che la sorte avesse messo nelle loro mani il frutto della perpetuità familiare. Forse, travolte da frequenti scariche ormonali, sentivano che il destino delle nuove generazioni dipendeva dalla loro sopravvivenza, e che questo era un ottimo motivo per lottare e non perdersi d’animo.

Mi pento di non aver mai interrogato mia nonna su una questione così capitale. A impedirmelo è stata certamente la pudicizia imposta dalla condizione di nipote adolescente. D’altronde, ripensando alla sua scorbutica ironia, non credo che mi avrebbe fornito risposte più eloquenti di un’alzata di spalle o uno sbuffo stizzito. Non era una donna sentimentale e, soprattutto in vecchiaia, di fronte a nuovi rovesci, avrebbe dato ancora una volta prova di quanto vigorosa fosse la sua scorza.

Un dato è certo: la sua scommessa fu vinta, così come quella di zia Gianna, a dispetto di infinite altre tragicamente perdute. Non sta a noi giudicare i loro contegni scriteriati e pieni di intrepida irresponsabilità giovanile. Non ci resta che annotare i loro nomi — con tutta la discrezione del caso — accanto a quelli dei troppi sventurati che non hanno avuto la fortuna sfacciata di sopravvivere.