La Stampa, 12 maggio 2020
L’Argentina verso un’altra bancarotta
Il giorno che scandisce, di fatto, l’ennesimo default dell’Argentina volge al termine e come tutti gli altri da due mesi a questa parte, dagli altoparlanti sulla porta della parrocchia a Villa Lugano viene diffuso l’inno nazionale e subito dopo una preghiera ecumenica per chiedere tempi migliori. Alla mattina si inizia presto nella grande cucina che serve fino a 600 piatti caldi al giorno per le famiglie della zona. «Facciamo quello che possiamo - spiega padre Mario Miceli - ma il numero di gente che ha bisogno del nostro aiuto è triplicato in un mese. Non che prima fossero pochi, ma adesso siamo al collasso». Con chiunque parli, si sente la stessa litania: non si stava bene già prima, ora è il disastro. Scaduto il termine per ristrutturare un debito di 69 miliardi, l’ultimo round di negoziati (con scadenza il 22 maggio) non promette nulla di buono. Nel Paese recordista di bancarotte nel mondo, nove default in 200 anni di Storia, la povertà e l’indigenza non sono mai scomparse del tutto. Mali endemici di una società con enormi differenze e un impoverimento costante della sua classe media.
Nelle «villas miserias»
Villa Lugano si chiama così perché è stata fondata 150 anni fa da una famiglia di facoltosi immigrati svizzeri, ma non ha nulla a che vedere con le banche e i giardini della città ticinese. Qui ci sono enormi palazzoni anni Settanta, famosi nelle cronache cittadine per le guerre dei gruppi narcos che ne dominano la vita quotidiana. Negli ultimi anni il Comune ha fatto parecchi interventi di riqualificazione urbana, è stato costruito anche un anfiteatro che ha ospitato due anni fa i Giochi Olimpici giovanili, ma intorno non smettono di crescere le «villas miserias», uno dei migliori termometri dello stato di salute dell’economia argentina. Come un bandoneon, la filarmonica usata nel tango, queste baraccopoli si allargano e si popolano nei momenti di maggiore crisi, un sovraffollamento che oggi è anche uno dei nemici principali nella lotta al virus. «Qui otto famiglie su dieci vivono dei sussidi statali o delle changas, lavoretti informali pagati a giornata, che ora sono scomparsi. Gli altri lavorano per lo più nella ristorazione o nella costruzione e anche questo si è bloccato». Lo sconforto di don Mario fa il paio con la dichiarazione del ministro d’economia Martin Guzman nella presentazione del piano di ristrutturazione del debito estero. «Non possiamo pagare, chiediamo al mondo un atto di buena fè, di fiducia nella nostra volontà di onorare gli impegni presi senza soffocare la nostra gente».
Buenos Aires ha un’esposizione di 69 miliardi di dollari spalmata su dieci obbligazioni internazionali con scadenze dal 2030 al 2047. Propone una riduzione del 6% del capitale, del 62% degli interessi e tre anni di moratoria assoluta. Rispetto al default del 2001, questi tango bond non sono stati venduti a piccoli risparmiatori ma appartengono a grandi fondi americani, che hanno già rifiutato l’offerta. Ora si apre l’ennesimo contenzioso internazionale. Ci sono poi i 44 miliardi di dollari del prestito concesso dal Fmi che per ora è stato definito «impagabile». Per gli argentini sembra un film già visto.
Malati di debito estero
La dipendenza dal debito pubblico (oggi 90% del Pil) è così forte che all’università di Buenos Aires hanno allestito un «Museo del debito estero», tappa obbligata per gli studenti di economia. «Viene sempre presentato come la medicina – dice Mateo Gadano, uno dei curatori- ma è chiaro che l’indebitamento è la causa della nostra perenne "malattia". Tutti i governi ricorrono ad esso, poi sono obbligati a tagliare la spesa sociale per pagarlo e questo non fa che aggravare la situazione». Sebastian Gimenez Melo non è un’economista ma sta vivendo sulla sua pelle questa ultima crisi. Cinque anni fa ha aperto «In Mezzo», un piccolo bar-ristorante a fianco di un’università privata. «Dall’anno scorso la gente consuma meno perché aveva paura di cosa sarebbe successo con le presidenziali di ottobre». Poi c’è l’inflazione che nel 2019 è arrivata alla cifra record di 53%. «Il prezzo del latte aumenta del 10% ogni settimana. E così lo zucchero, i tovaglioli o i superalcolici. Se segui il ritmo dell’inflazione ti ritrovi con il bar vuoto, se non fai nulla lavori in perdita». Il bar probabilmente non riaprirà. «Gli studenti non torneranno perché l’università farà corsi online e dovremmo comunque rispettare distanze di sicurezza da non riuscire ad avere più di 3 clienti alla volta».
Serrande chiuse per sempre
La pandemia è stata solo l’ultima scure abbattuta sui gestori di bar e ristoranti a Buenos Aires. Secondo stime della camera di commercio il 60% dei locali chiuderà, un’ecatombe che non si è vista nemmeno nel 2001, quando alla Casa Rosada si susseguirono 6 presidenti in una settimana. «Come sempre – spiega Sebastian – a patire di più sono gli autonomi. Ai più poveri arrivano i sussidi sociali, le grandi imprese riescono a negoziare con lo Stato, i dipendenti pubblici sono protetti; a noi nessuno ci aiuta». L’assistenzialismo è una costante nella storia argentina. Dallo Stato benefattore degli anni Sessanta si è passati però allo Stato salvatore; evita a milioni di famiglie la fame, ma non riesce ad operare interventi strutturali. I tecnici dell’Università Cattolica, fra i pochi che durante il kirchnerismo fornivano dati economici attendibili, hanno fissato al 40% il numero dei poveri alla fine del 2019. Oggi, con tutta probabilità, sono di più. Il commercio al dettaglio, rimasto fermo per due mesi, sta riaprendo, ma si teme il vuoto di clienti. Ernesto Frezza lavora per un grosso importatore di articoli da montagna. Le commesse pubbliche sono rimaste invariate, ma i negozi hanno bloccato tutto. L’impresa «Mercado Libre», start up argentina leader nella vendita online in tutto il Sudamerica, offre consegne gratis, ma chiede ai venditori una commissione del 13%, polverizzando così i margini di guadagno. «Il grande commercio online è destinato a mangiarsi i piccoli. I prodotti importati sempre più cari, solo chi compra su grande scala riesce ad ottenere prezzi e condizioni vantaggiose, anche se non sa se riuscirà a vendere».
Il cambio parallelo
È tornato anche il «cambio parallelo»: un dollaro vale ufficialmente 65 pesos, ma di fatto viene scambiato a 110-120. Lo Stato stampa moneta, svalutandola e gonfiando l’inflazione. I pensionati, memori del blocco dei conti correnti del 2001, vivono con i contanti in mano e sono costretti a fare lunghe code in strada per riscuotere la pensione. Pur avendo intrapreso un cammino virtuoso contro il coronavirus, se comparato a quello del Brasile del negazionista Bolsonaro, il governo sa che l’arrivo dell’inverno australe potrebbe provocare una seconda ondata di contagi, in concomitanza con il blocco totale degli aiuti esterni a causa del default. Un’Argentina chiusa e isolata è di nuovo fuori dai giochi, proprio quando avrebbe bisogno di una mano gigante per risolvere la sua ennesima crisi.