la Repubblica, 12 maggio 2020
Londra non può stare senza Dickens
Ci sono piombate addosso giornate eternamente lunghe da passare da soli, infestate di preoccupazioni. Nemmeno la paura del contagio fa digerire agli inglesi la mancanza di libertà e così il governo non si è risolto a vietare completamente le uscite. Una volta al giorno possiamo uscire: ne approfitto per passeggiate solitarie in cui ritrovo a ogni angolo la stralunata persistenza di una Londra dickensiana in quella attuale. Come la maggioranza dei londinesi abito non troppo lontano da un cimitero. Ce ne sono ovunque, nascosti da muri di cinta o aperti alle passeggiate come giardini.
Niente di macabro, oggi: rose e clematidi arrampicate su lapidi sconnesse, scoiattoli e gazze, meli selvatici. Nell’Ottocento erano orrori sovrappopolati, soprattutto da bambini. Lord Melbourne protestava che nei romanzi di Dickens non c’erano che ladruncoli, mendicanti e becchini. E bambini, avrebbe dovuto aggiungere. Orfani o privi di genitori rinchiusi in prigione per debiti, mandati nelle Working Houses e in fabbrica come succede a Dickens.
A salvarlo dal sudiciume buio del magazzino in cui lavora è l’arrivo imprevisto di un’eredità, modello di tutte le impreviste eredità che affiorano di continuo nei suoi romanzi. Denaro che si svela come unico regolatore di rapporti umani. C’è, non c’è, si guadagna, si perde. Impedisce matrimoni, fa traslocare i personaggi da misere stanze alla prigione per debiti di Marshalsea. Il denaro che Dickens vede scorrere nelle arterie di Londra non è meno regolatore delle nostre esistenze, due secoli dopo; nelle sue pagine viene contato ossessivamente, ghinee, scellini, pence, scivola dalle mani di suo padre John come da quelle di Micawber, l’uomo che ritorna «a cena in un profluvio di lacrime dichiarando che ormai non gli restava altro che il carcere», per poi «andarsene a letto calcolando quanto sarebbe costato far mettere i bovindo all’alloggio, nel caso qualcosa si presentasse». E che «scongiurava di prendere esempio dalla sua sventura e tenere presente che se un uomo aveva venti sterline all’anno di reddito e ne spendeva diciannove e diciannove scellini e dodici pence, poteva essere felice, ma se spendeva ventuno sterline era un disgraziato». Dall’altro lato della strada vedo l’insegna di un supermercato, con una fila ordinata di gente a distanza. Poundland. Un nome azzeccato tanto per la Londra dickensiana quanto per quella di oggi. Questa terra emersa dalla rivoluzione industriale, Poundland, diventa il combustibile permanente del narrare di Dickens e l’unico fondale delle sue storie (ma esito a scrivere fondale: Londra, Dickens la narra come narra i suoi personaggi, con un misto di attrazione e disgusto). L’ha raccontata tutta, ogni quartiere ha la sua pagina. Non avevo mai visto – e credo non l’abbia mai vista nessun londinese della mia generazione – Bloomsbury così vuota, il British Museum come un immenso scoglio grigio senza un’anima attorno, immerso in un silenzio spettrale. Tutto è fermo, tutto è immobile, nello stillare di queste miti sere primaverili.
Nell’ultima inquadratura di Still life di Uberto Pasolini si raduna una folla silenziosa di morti. In queste sere vuote vedo Londra popolarsi allo stesso modo di personaggi e storie che conosciamo. Arrivo in Doughty Street, dove c’è la casa in cui Dickens ha scritto Oliver Twist. È chiusa, non c’è traccia dell’abituale andirivieni di visitatori.
Club di dickensiani accaniti sono sparsi per il Pianeta (ce n’è uno interpretato da Matt Damon anche in Hereafter, di Clint Eastwood) e hanno redatto – con uno spirito visibilmente derivato dalle mansuete bizzarrie dei pickwickiani – una lista dei personaggi inventati dal loro idolo: più di duemila. In ogni angolo della città deserta ogni lettore di Dickens non fa fatica a intravedere panciotti a righe e fiocchi violetti, fazzoletti di mussola e cappelli turchini, stracci di mendicanti e fibbie d’argento. Per ogni lettore di Dickens, Londra è Dickens. Lui la chiama “The Great Oven”, una metropoli di quartieri sfavillanti e sobborghi in cui famiglie di dieci persone vivono ammassate in una stanza.
Le malattie la devastano: colera tifo, vaiolo, febbri di vario tipo, influenze. Nessun londinese può vantarsi di possedere una salute di ferro. Quando, a metà Ottocento, compare l’aggettivo “febbrile” per descrivere la vita metropolitana, non è una metafora, bensì un’affermazione scientifica. A ridosso di Casa desolata, nel 1854, scoppia nel centro di Londra un’altra epidemia di colera che quasi uccide il grande rivale di Dickens, Thackeray. Nel giro di tre giorni muoiono a Soho in più di cento e il giovane medico John Snow comincia a girare di casa in casa. Chiede alla gente che dove ha mangiato, cosa ha bevuto, chi ha visto. Confrontando i dati si accorge che il numero dei contagi è impressionante in Broad Street e nelle stradine limitrofe; e che quasi tutti gli ammalati hanno bevuto alla fontanella pubblica, in strada. Appena la fontana – su sua richiesta – viene chiusa, nel quartiere il numero dei contagiati crolla. E la teoria di Snow – il primo ad analizzare big data a scopi scientifici – viene confermata dalla scoperta che la parete che separa la condotta dell’acqua dal pozzo nero di una casa vicina è forata. Non sono solo le parole contagio, isolamento, sanificazione a rimbalzare fino a noi con impressionante contiguità, ma anche l’incertezza davanti a malattie di cui si sa pochissimo. «Spero di aver colto in tutti i miei romanzi ogni occasione di mostrare il desiderio di migliorie sanitarie nei bisogni trascurati dei poveri» scrive Dickens.
La pandemia che stiamo vivendo ci precipita di nuovo in quella consapevolezza che lui ha raggiunto prima di altri: nessuno è immune dal contagio e spetta alla società l’urgenza di proteggerci. E tuttavia ogni sera la conta delle vittime di coronavirus entra nelle nostre case con la sua evidenza tuttora sinistramente dickensiana: i morti sono soprattutto i più deboli – vecchi, poveri, malati, minoranze etniche.
La claustrofobia che ci assale chiusi in casa si ripresenta anche nell’attraversare città semideserte. Non c’è più la nebbia spessa né la fuliggine che fanno di Dickens il poeta della claustrofobia ma i quartieri troppo vuoti ci spaventano nella loro innaturale assenza di gente. In Granville Square, quattro amici chiacchierano all’imbrunire. Una ragazza si sporge al davanzale della finestra, gli altri si sono portati sedioline pieghevoli e lattine di birra. Sono le storie all’epoca del Coronavirus: fare del marciapiede un salotto, Boris Johnson che prima suggerisce l’immunità di gregge e poi si becca il virus rischiando la pelle; l’epidemiologo Neil Ferguson costretto alle dimissioni per aver infranto la quarantena: voleva vedere l’amante. Scene bislacche che fanno da contrappunto alle immagini cupe, proprio come in un romanzo di Dickens: la tragedia non è mai senza commedia.
Dickens è grande non solo perché anticipa tanta narrativa a venire (e tanto cinema) o perché ci avverte che ogni società rischia di trasformarsi in prigione. Dickens è grande – come scrive Nabokov – quando «splende per sempre sulle alture di cui conosciamo esattamente l’altitudine». Quando ci fa sorridere e ci ricorda «che ciascuno, in fondo, è superiore a tutti gli accidenti che gli capitano nella vita, nonostante accadano di continuo ».