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 2020  maggio 12 Martedì calendario

Gli architetti e il mito del buon selvaggio

Bisogna vederli, i paesi spopolati della Calabria: eternit, calcinacci, moto truccate e muli. E bisogna patire «la vita brulla» – dice Montale – delle aree abbandonate con «le vestigia che il vuoto non ringhiotte» per capire che non ci sarà il ritorno alla natura, il ripopolamento, il rilancio proposto da (quasi) tutti gli architetti adesso che il Covid ha trasformato le città in prigioni e gli appartamenti in celle di clausura.
Dunque resteranno pietrose e bruciate le campagne di Palma di Montechiaro e non ci saranno balli del Gattopardo a Cunziria, Borgo Lupo, Schirò, Gibellina Vecchia e Poggio Reale. Al contrario, sempre più i paesi dei nonni diventeranno inabitabili anche per i poeti. E lungo le strade deserte dei tanti Castiglione d’Italia, lì dove circola, per dirla con Saba, «un’aria strana, un’aria tormentosa, l’aria natia», la sola cosa che potrebbe riaccendersi è la voglia di scrivere “contro” gli architetti. Tom Wolf nel 1981 definì Le Corbusier «Signor Purismo» perché «insegnava a diventare grandi architetti senza mai costruire, lui che edificò la Città Radiosa, ma dentro il proprio cranio». Di sicuro c’è qualcosa di strambo nel corale invito degli architetti a rilanciare la campagna, proprio loro che costruiscono in città: aeroporti, stazioni, sedi di giornali, palacongressi, fondazioni industriali, centri di moda. Oggi, il mito della campagna e la cultura antiurbana si accontentano di alberi piantati sui tetti, di parchi, edifici sostenibili, mille meraviglie verdissime, ma tutte in città. Del resto la voglia di scappare e «sfollare le città» (Mussolini) si ripropone ciclicamente, ma solo in certi momenti di crisi diventa una velleità dominante, una demagogia da slogan, la via Gluck, le città giardino, i condomini con le paperelle, le comuni hippie, le lucciole e il buon selvaggio... E la campagna finisce nelle Mostre, nei libri, nelle canzoni e nei progetti delle seconde case che a volte sono sconosciuti capolavori come del resto qualche cantina del Piemonte e della Toscana. C’è a Buccheri, paese dimenticato della Sicilia, la casa dell’oculista Ciccio Frazzetto che l’architetto Giacomo Leone costruì con i tetti di legno così spioventi da entrare dentro la terra, a ritrovare le radici.
L’architettura antiurbana che sorride alla natura c’è sempre stata e “la Casa sulla Cascata” di Frank Lloyd Wright è la meraviglia che tutti conosciamo. Ma sono solo speciali fantasie; nulla a che fare con le bonifiche, i ripopolamenti e meno che mai con le utopie socialiste che negli anni venti portarono ai kolchoz in Unione Sovietica e ai kibbutz in Palestina, i primi programmati e imposti dallo stalinismo, i secondi su base libera e volontaria come racconta Assaf Inbari nel bellissimo Verso casa che sta per uscire in italiano edito da Giuntina. Dunque, “Maledetti architetti” che costruiscono in città, ma di nuovo cantano con Beniamino Gigli: «Se vuoi goder la vita / torna al tuo paesello / ch’è assai più bello della città».